New York: torna il jazz colto e disperato di Furio Colombo

New York; torna il jazz colto e disperato SPENTA L'ONDATA ROCK, E' TERMINATO IL LUNGO ESILIO DELLA MUSICA PIÙ' AUTENTICA D'AMERICA New York; torna il jazz colto e disperato Almeno in venti locali si suona di nuovo tutte le sere - Omette Coleman, che sovvertì tutte le regole con la sua «New Thing», richiesto da più di cento Università - Riecheggiano la tromba di Miles Davis e il solitario sassofono di Archie Shepp NEW YORK — Tornano come prigionieri politici da un esilio, si guardano intorno, smagriti, con l'apparente mitezza portata dal tempo che ha scavato le facce, ha sfuocato un poco lo sguardo. Però niente è cambiato. Una furiosa energia è pronta a scatenarsi di nuovo appena toccano lo strumento. E' la stessa di allora, vent'anni per Omette Coleman, che, allora, si dice, con il suo sassofono ha cambiato per sempre il jazz e le sue regole, quasi dieci anni per Miles Davis, tromba, o per Archie Shepp, altro sassofono, il cui passaggio ha segnato con forza la storia della musica americana. Venti anni, dieci anni, sembra di contare il peso di una condanna. Che cosa ha spinto via e rinchiuso lontano per periodi talmente lunghi personaggi che sembravano il cuore di un'America unica al mondo? — Di me ci sono tanti dischi. Ma io non ci sono. O almeno non ci sono stato per tanti anni. Mi sembra di essere un personaggio sradicato da un tempo e portato in un altro tempo. Non so che cosa ho fatto mentre non ero in scena e non stavo suonando. Non lo so e non sarei capace di raccontarlo. Per lui dice il suo manager: •Pochi ignorano questo nome. Omette Coleman. Quasi tutti i jazzisti da John Coltrane a Dave Brubeck hanno suonato la sua musica. Sa quanto ha guadagnato Coleman di diritti d'autore negli ultimi anni? Seicento dollari.. Omette Coleman adesso vive e lavora a Los Angeles. Si dice che prepari la musica del prossimo film di Bogdanovich, anche se tecnicamente Coleman non sa scrivere musica e ha sempre vissuto d'improvvisazione, ispirando gli altri con la forza, la violenza, la radicale novità di quel che faceva, non con partiture o parole. E' passato da New York in gennaio. Lo si è visto al Village Gate e al Michael Pub. Lo si è ascoltato solo in privato. J suoi manager vogliono che il nome tomi il piii possibile a circolare, contano sui dischi, non credono trop- po ai concerti. Eppure si trovano davanti a questo miracolo. Quasi cento Università hanno chiesto di avere Ornette Coleman per il prossimo anno. Coleman, che assomiglia a James Baldwin ed è timido come un bambino quando non suona, dice come se parlasse di un altro: «Sono finiti gli altri suoni, gli altri rumori. E sul fondo c'era ancora Omette Coleman*. Difficile dire se parla con orgoglio o tristezza. Piii difficile ancora chiarire il fenomeno. Che cos'è, nostalgia, ritomo al passato, un altro revival fra tanti? Che cosa vuol dire, in quest'America sobria e conservatrice, interessata al jogging e agli affari privati, il venir fuori di una musica aggressiva e tenace, di un suono alto e violento, fatto di armonie frantumate, certo incompatibili con la pace privata del mondo americano di questi anni? Mura di Gerico — Suonerò, suonerò e suonerò — lui dice con quel suo modo di ridere a occhi chiusi che potrebbe essere anche un segno di disperazione — intomo alle mura di Gerico. Non crolleranno, ma io non smetterò di suonare. Omette Coleman non è mai stato davvero ispirato da una causa politica. Lui dice: «C'erano i diritti civili e io ci sono andato. C'erano le proteste dei negri e io sono negro. Ma loro conducevano me, non io. io con questa cosa (indica il sassofono) ero sempre altrove». Lui era il protagonista di una rivoluzione che John Cage, Léonard Bemstein, Luciano Beno avevano battezzato • The New Thing: la nuova cosa. Nel 1960 si andava in una specie di pellegrinaggio ad ascoltarlo in un caffè della Bowery, il quartiere povero di New York, che si chiamava *Five Spot.. Il •Five Spot» era un luogo di Bohème come non ne esistono più in America. Ci passava Kerouack, ci soggiornava Ginsberg, comparivano i nuovi autori del teatro sperimentale di allora, Albee Jack Gelber. Era, ricorda Omette Coleman adesso, un locale di teiver'ordine. Ma dopo due settimane tutta l'intelllghentsia di New York aveva cominciato a venire, si fermavano persino le grandi limousine nere del dopo teatro. Una sera c'erano Arthur Miller e Marilyn Monroe. Un'altra sera la Bacai con Jason Robards. Quando venivano Luciano Berio e Bemstein si andava a parlare a Coleman negli intervalli. Berio parlava, gli spiegava in termini musicali le cose nuove e straordinarie che lui stava facendo. Coleman con una sciarpa di lana passava il tempo ad asciugarsi il sudore, si toccava le labbra per accertarsi di non avere dei tagli, sorrideva come adesso, a occhi chiusi. Se gli si toccava una spalla apriva gli occhi e guardava con meraviglia come se controllasse un pericolo. Adesso le spalle strette e un poco cadenti sembrano il segno degli anni. Allora aveva una testa potente su un corpo ancora immaturo. Gli è restato quel suo modo un po' mostruoso di gonfiare le guance oltre ogni misura possibile, come un esibizionista da circo. Adesso, quando non suona, quelle sue guance sembrano una zampogna a riposo. Sulla pelle afflosciata si sono sovrapposte, a rete, le rughe. Il bambino invece è rimasto negli occhi rotondi e meravigliati, sempre un po'in ansia. Si sente il vuoto intomo alla vita e persino intomo al corpo, all'esistenza fisica di uno come Omette Coleman, in America. Non si trovano punti per congiungere i territori sporadici in cui è esistito, co¬ me il grande rivoluzionario della musica jazz, e quelli in cui ha taciuto o è scomparso. Un po'lo ha sempre isolato la sua ostinazione, la persuasione che .lai ha ragione e tutti gli altri hanno torto». Coleman ha violato le regole del jazz partendo dalle sue modalità più avanzate, spingendo un suono popolare nel territorio ignoto della musica d'avanguardia. Lo ha guidato uno strano istinto creativo che non ha niente a che fare con la cultura. Ha detto una volta: — Da ragazzo mi hanno fatto un regalo, una cassetta con dentro un sassofono. Era tutto smontato. Io ho messo i pezzi insieme, ci ho impiega- to due giorni perché non avevo mai visto un sassofono. Poi ho cominciato a suonare. Da allora suono sempre allo stesso modo. Miles Davis guarda con rabbia, con un suo freddo furore. Dipende dal fatto che in pubblico quest'altro grande protagonista del jazz ha solo due espressioni possibili: un bel sorriso infantile e il furore. — Siamo stati giocati in passato. Lo siamo e lo saremo ancora, dice fra i due turni di quaranta minuti in cui suona quasi ininterrottamente la sua celebre tromba al Beacon Theatre. Era il Village Gate l'ultima volta. Poi dove è stato, che cosa è successo? — Non è vero, non sono dieci anni che sono scomparso. L'ultima volta ero a New York cinque anni fa. Ci sono sempre stati in giro i miei dischi. Ma c'era troppo rumore. Poi noi siamo sempre stati giocati, e lo saremo ancora. Non si capisce se Miles Davis parli dei manager, degli studi di registrazione, del pubblico. Oppure del mondo. — Fa lo stesso — dice in un istante di rassegnazione — fa 10 stesso. Tanto anche se uno mi capisce che cosa ne faccio? Passo alla cassa a ri- ' prendermi gli anni perduti? 1 Metto insieme una jazz band che sconvolge il mondo? Divento un profeta? Io posso soltanto suonare. Per il resto i mi hanno sempre giocato | Ha una voce soffice, chiara, | che non va d'accordo con la , sua disperata difficoltà di I parlare. Suona con tutta la bravura del mondo e segnala 11 suo scetticismo anche in questo modo: suona di tutto, dalle grandi ballate del jazz a .Porgy and Bess-, dagli spunti delle Jam sessions che lo hanno reso famoso ai temi che chiunque riconosce a orecchio Una frattura al bacino non ben guarita lo co¬ stringe a muoversi con impaccio, una contraddizione dolorosa per il •gatto nero», come lo chiamavano «adora». .Allora* è la regione del tempo da cui questa gente del jazz americano ritoma. Si presenta con ferite, qualche volta fisiche, come per Miles Davis, oppure marcate nella vita, nella memoria. C'è in loro un po'della stanchezza degli eroi di Raymond Chandler, un po' del pessimismo azzardato e romantico di Humphrey Bogart (o almeno del mito) e molto del dramma negro che non ia mai avuto davvero la sua soluzione. Ci sono almeno venti posti a New York dove si suona di nuovo il jazz tutte le sere. C'è un musical di enorme successo, a Broadway, tutto montato sulle musiche di Duke Ellington. Ma i «ritorni» sono i più avventurosi e i più dolorosi, un po' perché ciascuna storia è quasi impossibile da ricostmire e un po'perché sono ferite americane quelle che questa gente si porta addosso, non solo ferite private. Come le foglie Qual è il vento che li ha sbattuti in faccia e li ha spinti via? E qual è il vento che sembra costringerli a questo ritomo? Dicono Stan e Sid Bemstein, i nuovi managers di Omette Coleman: «La televisione li ha spinti via. Il mito dell'ossessivo della celebrità li ha spinti via. E anche la grande ondata della musica rock, cosi facile, cosi popolare. Bravi, certo, bravi. Quella del "rock" era la musica della classe media e bianca per tanti ragazzini della classe media e bianca. Non c'era né tempo né voglia per il jazz che è più colto, più disperato e infinitamente più legato alla storia. Noi pensiamo che una bella canzone rock sia importante perché la cantavano i cosid¬ detti movimenti dei giovani. Ma il jazz viene su da strati molto più profondi dell'espe rìenza. E non è un'esperien za sempre gradevole. La tele visione dei drammi veri si stanca». Accanto al uFive Spot», ai tempi della prima celebrità di Omette Coleman c'era una casetta di legno con ripide scale che portavano a un unico appartamento. Era la casa di un altro sassofoni sta, Archie Shepp». «Una musica ha bisogno di un popolo». Lui diceva: «Ma io non ce l'ho questo popolo» Per cento dollari improvvisava ed eseguiva la musica per i documentari sull'America alla televisione. Era una musica bella e triste, sempre per un sassofono solo. Avvolto in lunghe sciarpe di lana, con un berretto da marinaio svedese calcato in testa Archie Shepp mi spiegava: «Non ce 'la faccio a mettere insieme un'orchestra». Anche cosi il suono del suo sassofono è ri mosto nella colonna sonora della storia d'America. E in tomo a lui, come a Coleman, come a Davis, persino in questa stagione di grandi ritomi si sente un vuoto. «La ragione è che non sia mo la musica di nessuno, an che se nel silenzio di altri suoni adesso la gente qual che volta ci ascolta». Dice Ornette Coleman ripetendo senza saperlo le parole dette dal suo amico Archie Shepp, quindici anni prima. «Non è vero — gli manda a dire a distanza Léonard Bemstein —. La loro impronta è grandissima. Ora c'è spazio e questa impronta diventerà sempre più grande. Essi sono una delle voci più importanti d'America». Sulla faccia di Miles Davis c'è, nitida e ben visibile accanto alla bocca, una piega che sembra d'indifferenza. «Oh no. è delusione», lui spiega. Delusione di che cosa? «La grande truffa. La vita che se n'è andata». E toma a suonare lasciando libera la sua tromba di portare qui, su questa pìccola scena, tutto il passato, e tutti i sogni, e tutto quello che non è accaduto ma poteva accadere. Furio Colombo