Guttuso: «Non mi sento orfano dell'Urss» di Lietta Tornabuoni

Guttuso: «Non mi sento orfano dell'Urss» IL «PITTORE ROSSO NUMERO UNO» PARLA DEI QUARANTANNI VISSUTI COME MILITANTE COMUNISTA Guttuso: «Non mi sento orfano dell'Urss» Ha conosciuto tutti i miti, le crisi, i conflitti tra intellettuali e potere - Stalin era «un vecchio goffo, con un vestito grigio-colomba» - Quella sera del '56, con Sartre, a difendere «con il cuore in pezzi» i sovietici invasori dell'Ungheria - «Davanti alla Scala i ragazzi cantavano Bandiera rossa e io ero dalla parte dei ricchi» - Lo hanno chiamato «Il Tribuno Illustrato»: «Sono d'accordo, ma al modo di David e Goya» - Con Picasso a Varsavia ROMA — Adesso che nel pei tutto è cambiato, come si ritrova un artista, un intellettuale da sempre comunista? Come si sente? Solo, tradito, povero senza le fedi e speranze che sono state la sua vita, mutilato del passato, irriconoscibile a se stesso nel presente? Oppure prova il sentimento di libertà vittoriosa di chi vede finalmente legittimati i propri dubbi e può parlare ad alta voce? Renato Guttuso, il pittore italiano più famoso, ha appena compiuto settantanni: quaranta ne ha vissuti nel pei come militante, dirigente, componente il Comitato centrale, senatore, ambasciatore culturale nei Paesi stranieri della borghesia e del mondo, simbolo. Ha conosciuto tutti i miti e i leaders internazionali, tutti i momenti tragici di crisi, tutti i conflitti tra intellettuali e potere politico. Sempre inquieto, e sempre obbediente al partito. Comunista, e ricco. Artista prediletto dai compagni come dagli industriali o dalle contesse, populista e amante dei riconoscimenti ufficiali, amico dell'Urss e definito dagli americani «The Red Painter Number One», il pittore rosso numero uno. Per i settantanni di Guttuso, la migliore festa di compleanno è certo la grande mostra antologica della sua opera che s'inaugura il tre aprile a Venezia, ordinata dall'istituto culturale di Palazzo Grassi. Un modo diverso di celebrare può essere ripercorrere la sua storia d'artista di partito: su questa lo interroghiamo. Quando lei è diventato comunista, il pei era il partito marxista-leninista della classe operaia e dei contadini poveri, un partito antifascista, filosovietico, dogmatico, stalinista nella pratica, rigorosamente obbediente nella cultura alla linea sovietica del «realismo socialista». Oggi che è un partito tutto differente, e anche la rottura con l'Urss è stata consumata, lei come si sente? — Non mi sento un orfano dell'Urss, un uomo solo senza più punti di riferimento: «senza ideali in cui sperar», come canta ^Internazionale. Per tanti di noi, l'Unione Sovietica ha significato negli anni entusiasmi, speranza, affetti, conoscenza, ferite, un'immagine di protettiva grandezza e forza, conflitti, amicizia: sentimenti, esperienze che compongono una tradizione e una storia di vita sentite profondamente. Ma altrettanto profondamente io ho vissuto il distacco dal l'Urss, che nel partito è cominciato molto tempo fa, ma tu rancio con lentezza. Sono amico di molti sovietici, miei quadri sono nei musei dell'Urss, i sovie- tici si sono sempre mostrati verso di me fraterni e cordiali, mi hanno attribuito premi e onorificenze. Questo non mi impedisce di sapere e di dire che il modo in cui il modello sovietico venne esportato in Europa è stalinista: che fosse anche sbagliato, l'hanno dimostrato i fatti. Stalin lo ha conosciuto? — L'ho visto a Mosca. Passava tra la gente a quel gran ricevimento al Cremlino, un vecchio goffo con un bel vestito grigio-colomba ornato da un'unica decorazione, il passo non senile, uno sguardo bello: tutto potevi immaginare tranne che fosse un satrapo feroce. A me pareva la Madonna. Poi l'ho rivisto morto, la salma tutta truccata: come quella di Lenin, che ormai pare una barnbolina, ogni sei mesi lo ritruccano e Io rifanno, di lui non è rimasto nulla. Neppure del pei originario è rimasto granché: ha avuto qualche volta il desiderio di abbandonarlo, di dimettersi? — I miei momenti di crisi politica sono stati quelli di tutti i comunisti, non soltanto italiani: nel 1956 della rivolta d'Ungheria abbiamo difeso l'Urss col cuore a pezzi. Stavamo dietro le finestre di via delle Botteghe Oscure, difese all'interno da pile di mattoni, aspettandoci un assalto. Vedevamo la diaspora degli intellettuali che lasciavano il partito, scivolavano via come sabbia tra le dita, e non sapevamo cosa fare.. Ricordo una domenica in cui non trovavo a chi telefonare: era come se non ci fosse più un compagno con cui poter parlare. Sartre era a Roma: anche con Simone de Beauvoir abbiamo passato una serata abbastanza tragica. Lui dava più ragione a me, che dicevo: «In fondo, a Budapest non c'era altra soluzione». Sartre assomigliava per certi versi a Vittorini: gente che aveva riposto le proprie speranze nel pei, ma senza essere comunista, senza alcuna coincidenza e convinzione ideologica. Certo, questi russi ci hanno dato grandi dolori. I contestatori Soltanto loro? — Per me un punto nodale di crisi c'è stato tra la fine del 1968 e l'inizio del 1969. Un fatto: s'inaugurava la Scala di Milano con Don Carlos, mi invitarono. Il giorno dopo partivo per la Costa Azzurra, come ogni anno andavo a passare una settimana con Picasso. Amo molto Don Carlos, lo canto anche benissimo, almeno la parte del Grande Inquisitore. Cosi, nella mia ingenuità andai con mia moglie alla Scala: e per la prima volta nella vita mi sono trovato dall'altra parte. Io ero con i ricchi, con i contestati, e i ragazzi che cantavano Bandiera rossa stavano dalla parte opposta. Mi sono senato sprofondare. Non sono stato a pensare se contestare la Scala fosse stupido, vanesio o inutile: soltanto, quelli che cantavano Bandiera rossa stavano dall'altra parte: e questa era una cosa precisa. Negli anni, i momenti di dubbio e discussione sono stati molti, spesso ho preso posizioni in aspra polemica con quelle del partito: ma il legame di fondo non è mai stato messo in causa. Il mondo, o lo vuoi trasformare oppure no. Per trasformarlo, e io lo desidero, lo strumento è secondo me il partito comunista. Io in questa forza ci credo, e premo per una soluzione che sia la più lontana possibile dalla socialdemocrazia. Io non sono anticonformista, sono rivoluzionario. E Berlinguer? — Berlinguer è un uomo molto prudente e un po' incerto: il che provoca in lui, quando ha scelto una linea di condotta, un'affermatività testarda. Come artista, qual è stato il suo legame col partito? — Il partito chiede, e al partito si dà: anche quando non chiede. Ogni artista ha sempre dei committenti, dei condizionamenti: il partito è un committente politico-ideale anziché mercantile. Dal partito posso dire di avere ricevuto molto. Ho pagato il fatto d'essere comunista negli anni della guerra fredda: ostilità della critica ufficiale, inimicizie rispettose ma anche aggressioni o delazioni, isolamento da quella fonte e centro di tutto che pareva allora l'America, estraneità alla moda. Ma ciò che devo al partito è molto più importante. Il fatto di essere legato al pei in modo così diretto mi ha consentito di rafforzare le mie idee, di conquistare una rinomanza anche presso gente che non aveva mai visto un quadro. Il partito mi ha dato una collocazione che forse non avrei avuto, un pubblico che nessun pittore italiano aveva avuto mai. Le ha anche procurato critiche, beffe, ironia — Mi chiamavano «Sfrenato Guttuso»: ma questo è abbastanza giusto. Oppure «Il Tribuno Illustrato», come a dire che faccio una pittura illustrativa, didascalica, narrativa, popolare. Gli scherzi mi divertono e polemicamente sono d'accordo, il pittore dev'essere un tribuno illustrato: ma sul serio, come David e Daumier, come Goya. Maccari scriveva: «Gli industriali di Velate / i miliardi fanno a palate / e li investo' no come d'uso / in Svizzera e in Guttuso». Beh, è vero, U mio successo commerciale non so spiegarmelo. Ricco davvero, lo sarei se fossi stato una puttana: non lo sono. Il partito l'ha eletta membro del Comitato centrale, senatore... — All'inizio l'avevo presa con un certo entusiasmo ma non sono portato per queste cose: la mia passione politica è soprattutto ideale, di fare la professione politica non me la sono sentita. Non avrei avuto la forza d'essere convinto di cose di cui non ero convinto: come Togliatti, che in questo senso era un genio. Sui problemi artistici e culturali, Togliatti era durissimo finché in Urss non ci fu il Cambiamento. In pubblico, i suoi argomenti di discussione erano quelli soliti: queste tele si possono pure appendere sottosopra, tanto nessuno se ne accorge; questi sono versi soltanto perché scritti andando a capo; questa non è una mostra di quadri ma una raccolta di mostruosi orrori e scemenze, una esposizione di «bizzarrie geometriche e anatomiche, di ultraccademiche stravaganze», e «Suvvia! uno scarabocchio è uno scarabocchio»... Durante l'allestimento di una mostra dell'Alleanza della Cultura a Bologna nel 1948, una scultura di Consagra venne scambiata dagli operai allestitori per un'armatura da imballaggio, e buttata via: per Togliatti, una cosa così era un ghiottissimo argomento... In privato era timido, uno che ascoltava molto e si scioglieva lentamente. L'ultima volta lo vidi a una mia mostra a Parma. Abbiamo passeggiato un po' sulla neve, mi disse: «Quanto lavoro hai fatto. Possiamo essere contenti di avere dalla nostra parte una persona che ha prodotto tanto». Risposi: «Dipingere non è difficile». E lui: «Già, il difficile è pensare». Antifascismo Lei come era diventato comunista? — Mio padre, agrimensore che guadagnava pochissimo, era un mazziniano d'idee socialiste, ma da ragazzino io, cresciuto nel fascismo, educato al fascismo nella scuola, ero urtato e infastidito dal suo antifascismo accanito. La prima adesione libertaria alle idee antifasciste io la devo ai libri, a letture casuali: Malraux, Mann, i discorsi di Trotsky e il primo volume della sua autobiografia, Kuprin, gli anarchici e i socialisti umanitari russi. Facevo il corso allievi ufficiali a Palermo durante il servizio militare, e uno degli elementi che mi hanno influenzato direttamente è stata l'amicizia con i Lombroso: il professore, figlio di Cesare Lombroso; sua moglie, sorella di quel Leo Ferrerò che morì in aereo dopo aver gettato sopra Palazzo Venezia a Roma i manifestini antifascisti di «Giustizia e Libertà»; i loro figli Cesare e Nora. Nora Lombroso mi dette da leggere molti libri: quando arrivai a Milano ero già antifascista. E comunista? — A Milano vedevo Aligi Sassu e Raffaellino De Grada: ci dicevamo comunisti, ma neppure sapevamo cosa significasse. Eravamo prudenti, nel vivere e nel lavorare: «La fucilazione in campagna», che dipinsi nel 1938, era dedicata a Garcia Lo rea, ma lo sapevamo solo in pochi. Conobbi Mario Venanzi, un comunista che venne poi arrestato, e Malagugini. Tornando in Sicilia rivedevo gli antifascisti di lì: braccianti, il sellaio Paolo Ajello. Ignazio Buttitta. l'avvocato Caputo, insieme ai quali formai in pratica la sezione comunista di Bagheria. Dal 1937, a Roma, diventai amico di Trombadori, Alicata, Bufalini, Ingrao, Girolamo Sotgiu, Mario Socrate. I miei legami col pei si fecero stabili intorno al 1940: quando il partito divenne poi legale, l'ufficio politico datò al 1940 la mia anzianità di militante comunista. Sono quarantadue anni: la mia vita. I suoi conflitti con il partito sono stati più spesso politici o culturali? — Naturalmente culturali, artistici. Una sera del 1949, a Varsavia, ero a cena con Picasso e con un membro dell'Accademia sovietica, uno dei più zdanovisti. Rimproverava Picasso, lo accusava di far violenza con la sua arte al corpo umano e alla realtà: «Con questi quadri, io tiro calci negli stinchi alla borghesia», replicò Picasso, e quello: «Ve li paga molto bene, la borghesia, i vostri calci». Picasso veniva onorato perché era una grandissima celebrità ed era comunista: ma come artista i sovietici non sono mai riusciti ad accettarlo. Allora, in nome del realismo socialista, ogni forma dell'avanguardia europea su cui noi ci eravamo formati, Duchamp Strawinskij, ma persino Brecht o Kafka, venivano considerati negativi e sospetti; la prima avanguardia russa e sovietica poi era al bando, si cercava di far dimenticare al mondo anche che fosse esistita. E' una ri serva che, molto attenuata, sopravvive ancora: avrò insistito cento volte con i sovietici perché esponessero i Kandinsky, i Rodcenko, i Malevitch, gli Chagall, gli straordinari quadri lasciati aU'Urss dal collezionista Kostaki, ma la loro resistenza rimane, molto oltre gli anni di Zdanov. Caterina terza Com'era, Zdanov? — Non l'ho mai incontrato. Quando arrivò la notizia della morte di Zdanov ero in Polonia, a cena con Fadeev che guidava la delegazione dell'Urss a quel Congresso degli Intellettuali per la Pace da cui nacque poi il movimento dei Partigiani della Pace. Fadeev e gli altri dissero subito, con una reazione tipica: «Non è vero, è una provocazione». Risultò vero, e Fadeev ne apparve disperato: forse sospettava che fosse stato ammazzato, magari pensava anche a se stesso, ex artista dell'avanguardia e amico di Pasternak, che aveva rinnegato tutto il suo passato per legarsi a Zdanov. Si uccise poco dopo la destalinizzazione, Fadeev. Certo beveva moltissimo, ma chissà: i suicidi dei sovietici sono spesso misteriosi. La Fursteva, che sostituì Zdanov nel ruolo di autorità culturale («Caterina terza», la chiamavano, come un'imperatrice), era molto simpatica e mia grande amica. Bellissima donna. Fui io ad accompagnarla a visitare i Musei Vaticani, come capitava sempre: ogni volta che arrivava a Roma un'importante delegazione d'un altro partito comunista, toccava a me guidarla nella visita ai Musei Vaticani. Anche i compagni cinesi ci ho accompagnato: non capivano assolutamente niente, parevano indifferenti a tutto. Cercai d'innamorarli almeno un poco al Giudizio Universale. Il capo della delegazione alzò gli occhi, guardò, poi chiese con gentilezza: «E' que'Io che avete di meglio?». Il peggiore periodo cinese è stato la ivolizione culturale tanto amata di, tutti i fessi d'Italia, ma Mao era simpatico. Certo, i suoi pensieri... ma lui era simpatico. I conflitti culturali... — Gli anni della guerra fredda, i Quaranta e Cinquanta, sono stati terribili. La commissione culturale del partito era molto rigida. Emilio Sereni, che la guidava, pretendeva che riconoscessimo bellissima la pittura sovietica: e questo per me era impossibile. Con Alicata le liti erano tali che salivamo in piedi suite sedie per gridare più forte. Con Sereni erano scenate terribili: io ci piangevo di rabbia. Oggi il partito non dà più una «linea» culturale, è pluralista. — Il pluralismo culturale lo trovo giusto, ma non sono favorevole alle sconfessioni, e neppure alla mancanza di un proprio punto di vista. Giusto che tutti dicano quello che pensano, ma sulle faccende culturali e di costume un partito come il nostro un'opinione deve averla. I cattolici ce l'hanno. Non si può rischiare d'abbandonare il proprio ruolo, il proprio patrimonio, pur di apparire molto liberali. Lietta Tornabuoni (1 - Continua) Renato Guttuso - Uno dei disegni ispirati ai bronzi di Riace