Mauri, primo Puntila «esistenziale» al ritmo di vaudeville e cabaret

Mauri, primo Puntila «esistenziale» al ritmo di vaudeville e cabaret Il grande dramma di Brecht all'Alfieri, regista Marcucci con la Danieli Mauri, primo Puntila «esistenziale» al ritmo di vaudeville e cabaret TORINO — Prendendomi quel tanto di liberta che mi viene dal non essere né un germanista né un brechtologo, mi diverto a sostenere che Puntila e il suo servo Matti è il capolavoro teatrale di Bertolt Brecht. Non sarà forse vero, ma è certo che questo dramma, scritto da Brecht nell'esilio, in Finlandia, nel 1940 (e da lui tanto amato da sceglierlo a spettacolo inaugurale del «suo» Berliner Ensemble nove anni dopo), é scritto con una freschezza e un estro comico raramente eguagliati dal drammaturgo di Augusta, con una festosità in cui perfettamente s'amalgamano farsa grottesca, sottile satira di costume e, in primo piano, la dialettica tra padrone e servo, sfruttatore e sfruttato. La vicenda è assai semplice. Tra boschi, fiumi, laghi della verde Finlandia vive Herr Puntila, ricco proprietario terriero. Egli possiede due anime: quando è ubriaco, e gli capita a intervalli regolari, sembra un padrone «quasi umano»: vorrebbe beneficare l'operaio ribelle, sposare tutte le ragazze dei dintorni, fare dell'autista Matti il proprio genero. Ma, passata la sbronza, la dura fibra del capitalista, sprezzante ed ottuso, torna in lui a farsi sentire. A distanza prudenziale lo osserva Matti il proletario: che, con lo scrupolo caparbio del tipico «sottomesso» brechtiano, sa di dover fare il servo e basta. Rifiutate, finalmente, le nozze assurde con la figlia, incerta e schizzinosa, di quel borghese straricco. Matti pianta in asso il padrone: si prende la sua libertà, in attesa d'essere, presto, padrone di se stesso. Delle tre componenti del dramma, di cui abbiamo detto (ripresa ironica di certo teatro popolare», spietata, pur nel tratto affettuoso, pittura sociale, e dialettica ideologica) il Puntila di Egisto MarcucciGlauco Mauri, regista e protagonista, salutato con divertito, cordiale consenso dal pubblico torinese alla prima all'Alfieri, mette, deliberatamente, un poco in sordina la terza. E' quello di Marcucci uno spettacolo che fa il verso a certi moduli che Brecht amò e irrise ad un tempo, il vaudeville tedesco (piU en plein air e grasso e paesano di quello francese) e il cabaret della giovinezza a Monaco: con una strizzata d'occhio al film muto di Chaplin, quello, per intenderci, di Luci della città. Eccola, allora, la villotta pacchiana di Puntila, i capanni delle tre ragazze di campa¬ gna, il casotto della sauna, tutti teatri all'aperto in miniatura, col loro bravo velario; eccoli altri sipari che scorrono, con Puntila effigiato in marsina da un Grosz, a bella posta, meno graffiante del solito; eccola la cantastorie (la bravissima Isa Danieli) che canta Dessau in abito da sciantosa d'avanspettacolo; o una delle quattro ragazze (le fa tutte lei, la Danieli) la più umile, la vaccara, che parla in napoletano (le scene tenere, i rutilanti costumi sono di Maurizio Baiò). Ed eccola quella società di provincia, rimessa in piedi sui trampoli di un imbizzarrito gogolismo, che a Brecht piaceva, tra l'altro, molto: l'attaché d'ambasciata, stolido, allampanato, di vacua memoria (un concentratissimo Dario Cantarelli); la figlia di Puntila, Eva, tra borie d'ereditiera, candori da bambola in tulle, smanie da vamp fuori posto (Alessandra Panelli); quel giudice senza midollo, tutto languori e dilinquimenti (Guerrino Crivello); e l'avvocato, il pastore, la moglie di lui, la fida nutrice Lavina, attonite sagome di un balletto senza come e perché. Glauco Mauri, in frac, in nappe, in improbabili velluti da camera, è un Puntila che punta tutto sul suo privatissi¬ mo disagio d'essere borghese: su quella prigionia, che si porta addosso, d'essere costretto a vivere un ruolo, umano prima che sociale, di una atroce comicità. E' il suo il primo Puntila esistenziale che ci accade d'ammirare, coerente, in questa scelta difficile, alla misura d'interiorità cui questo attore non ha mai abdicato. Quando, nei fumi dell'alcol, s'illude di liberarsi da quella scorza, é un clown tenerissimo e straziato. Quando, rifatto sobrio da sauna e caffé, torna a essere quello che è, non è luciferino (come, poniamo, l'Ekke Schall, il genero di Brecht, al Berliner): è, all'opposto (e questa é davvero, a mio avviso, un'assai fine intuizione d'interprete) ferito, nell'intimo, dalla sorpresa d'essere diverso e peggiore: insofferente, quasi, della sua pur provata e probante malvagità: e in essa, solo, definitivamente. Confesso, a tutte lettere, d'aver temuto molto, alla vigilia, per Roberto Sturno nel ruolo di Matti, per la giovinezza dell'interprete; dico ora, a pari lettere, che è ineccepibile per controllo, sobrietà di toni, comprensione, insomma, della parte. Guido Davico Bonino

Luoghi citati: Augusta, Finlandia, Monaco, Torino