Quegli ambigui Anni Trenta

Quegli ambigui Anni Trenta MOSTRA A MILANO SULL'ARTE DEL TEMPO FASCISTA Quegli ambigui Anni Trenta MILANO - Sembra che Milano abbia ormai scelto una versione tattica, quasi militare, del rapporto arte-città: Miro aveva accerchiato il centro storico, gli «Anni 30» invadono Piazza Duomo, penetrano nel suo sottosuolo della «Galleria del Sagrato», salgono le scalee del riaperto fascistissimo Arengario, piantano insegne ed emblemi in Galleria. Nell'ottagono, la ricostruita struttura pubblicitaria in tubi Dalmine di Persico e Nizzoli (1934) ospita, assieme al tunnel d'ingresso del Sagrato, la sezione curata da Giordano Bruno Guerri sulla storia, il costume, l'immagine del fascismo «del consenso» nelle sue emergenze visuali e oggettuali: dal manifesto al soprammobile, dal gagliardetto alla divisa e all'aereo Caproni, dal ritratto di Balbo al bambinesco quadro di Balla sulla trasvolata atlantica. E cinque ore continue in «videotape» di cinegiornali e documentari «Luce». E* un'intelligente evocazione-esorcizzazione del corposo fantasma che incombe sulla mostra: non la vecchia e facile scappatoia giocata sulla volgarità e sul «kitsch» di comportamenti e costumi del totalitarismo di massa, ma la riproiezione d'immagine di questo totalitarismo in azione per captare e organizzare il consenso di massa. Dopo il tunnel d'ingresso, che ospita anche, a cura di Francesco Porzio, una sintetica ma precisa documentazione in libri e riviste della cultura letteraria, storico-artistica ed estetica, la «Galleria del Sagrato» comprende la parte più corposa della sezione di pittura e scultura. Ne è scissa, nel secondo blocco spaziale — Arengario e ultime sale di Palazzo Reale compresa quella delle Cariatidi —, la sezione «Arte, politica, propaganda». Essa comprende gli arazzi delle Corporazioni di Ferrazzi (il loro classicismo novecentesco applicato, non alla metafora, ma all'esemplificazione didascalica di una struttura di fondo del regime, presenta analogie impressionanti, presumibilmente ignote all'autore e certamente alla sua committenza, con il coevo muralismo messicano di Rivera, altrettanto ufficiale pur se «rivoluzionario»): l'enorme tavola. 6 metri per 5, della Battaglia di S. Martino e Solferino di Cagli, per la Triennale del 1936. che ribalta la mitizzazione del Risorgimento attraverso il gioco fin troppo squisito della «citazione» globale fra Paolo Uccello e Piero della Francesca: la celebre Crocifissione di Guttuso: le gigantografie degli affreschi e mosaici per il Palazzo di Giustizia di Milano, di Funi per Ferrara e di quelli perduti per la Triennale del 1933. * * Qui devo esprimere non un dissenso in ordine alle scelte qualitative dell.! mostra, in genere valide, ma una divergenza di fondo. L'ordinatore della sezione. Vittorio Fagone. è l'unico ad affrontare in catalogo i temi concreti dell'organizzazione e delle strutture totali/, zanti della cultura artistica del regime e della sua capacità di «sopravanzare ogni possibilità di Manifestazione del dissenso che non sia espressa in termini di chiara opposizione politica». Nelle introduzioni generali dei responsabili della mostra. Ba rilli e Caroli, viene invece ignorata in un certo senso la realtà totalitaria e totalizzante del fascismo «del consenso», la sua capacità di produrre e assorbire e trcmaiidare una quas illimitata elasticità di mediazione reale, strutturale, fra gli estremi onnicomprensivi del l'Accademia d'Italia e del permissivismo dei Littoriali e de Guf: da un lato Farinacci e Interlandi. dall'altro Bottai. Non era possibile attuare la progettata «polifonia», ^effettivo spaccato di avvenimenti, di tensioni» scorporando gli enunciati esplicitamente conformi al regime dai difformi discorsi «privati». 11 fantasma del fascismo e della sua cultura totalizzante andava affrontato di petto, come già da vent'anni hanno fatto i Garin, i Bobbio, gli Zangrandi. i Tranfaglia. Qui davvero insorgeva, ben al di là di ricapitolazioni e consuntivi, di recuperi e revivalismi, il problema reale delle fonti e delle continuità, dell'arte «pubblica» e «impegnata» e collettiva e di quell'organizzazione privata del mercato e del collezionismo contemporaneo che caratterizza proprio gli Anni 30. dal «Milione» di Milano alla «Cometa» di Roma, come anche dalla riorganizzata Biennale alla Quadriennale Non a caso, d'altronde, questa disparità fra intenzioni e oggettive linee di struttura della mostra è più evidente nella sezione di pittura e scultura, dove la critica storica non è ancora pervenuta a precisioni e soqIJ(c(mmaneltcl(iemrtsT( l e o o i e a a, e scioglimenti critici da schemi ormai invecchiati, che non in quelle di architettura (De Seta, IJrace, La Stella), di urbanistica (Guido Canella. Semino), delle città nuove italiane e coloniali (Mariani), dove l'approfondimento è assai più avanzato, come pure nel settore dedicato all'illustrazione libraria e giornalistica, grazie alla collaudata esperienza e al rigore metodologico di Faeti e Paola Pallottino. La considerazione di settori contigui all'illustrazione nell'Arengario, dalla fotografia (Francesca Alinovi) alla grafica industriale, in un decennio di eccezionale vitalità assolutamente di livello europeo (Marinella Pigozzi), ad altre, puntuali ma un po' troppo rigoristiche, come quella delle Triennali e del protodesign (Anty Pansera; nulla di Albini, nulla dei primi mobili «razionalisti» torinesi) e quella del teatro (Maria Grazia Gregori; inesistente Bragaglia. inesistente l'esplosione degli «scenografi pittori» al Maggio Musicale Fiorentino sotto l'impulso di Guido Maria Gatti nato nel clima Guatino), fa lamentare un'altra occasione perduta: un più coraggioso rimescolamento delle carte esposi ti ve sottolineante la nascita storica, anche in Italia, dell'unità dei «media» nella specificità dei linguaggi. Il visitatore sarebbe stato assai meglio coinvolto, anche solo nella comprensione formale, dalla presenza della fotografia d'avanguardia di Veronesi, Boggeri. Grignani nella belia sezione di pittura e scultura astratta curata da Caramel: e nella comprensione concettuale dall'accostamento del muscoloso «naturismo» di Luxardo a quello degli scultori imperiali, o dalla diretta immissione nell'«imagerie» del regime dell'indicibile raffinatezza «razzista» di Ghitta Carell. D'altro canto, solo appropriandosi della geniale scenografia teatrale, architettonica, utopica, arredativa. cartellonistica di Prampolini, Depero. Diulgheroft. Crispoldi è riuscito a riequilibrare intelligentemente l'avanguardia irrimediabilmente provinciale della pittura del secondo futurismo di stretta osservanza. Altrettale rimescolamento negli schemi di novecento-antinovecento. di scuola romana, chi arismo milanese. «Corrente» avrebbe giovato ad un nuovo quadro critico delle vere e intersecate tensioni interne: un quadro complesso che le scelte, salvo rari casi, del tutto significative, rivelano essere da un lato intrinsecamente interrelato, sia in sé sia negli esiti degli Anni 1920. e dall'altro, assai meno «tagliato fuori» (novecentismo compreso) dall'Europa di quanto pretendesse una leggenda troppo comoda e autogiustificativa (basterebbe rileggere all'inizio del decennio la Sarfatti. e lo stesso Piacentini per l'architettura, pur tanto lontani entrambi dal rigore morale dei Gioiti e dei Belli). sRpSPmndmScnmictsoEd ecco allora le proiezioni della primordialità coltissima degli «italiani a Parigi», assai ben centrati dalla Bossaglia (Campigli. Tozzi, l'ormai statuito Savinio. in particolare Paresce) nel corpo vivo dei giovani pittori e scultori di Roma e di Milano, e della genuinità lirica di Garbari nei «chiaristi» e ancora nel primo Birolli. nel primo Mucchi. Nella sezione curata da Alessandra Borgogelli. più compatta e autosufliciente è certo la pittura-pittura dei «Sei di Torino»: ma subito Levi, fra Modigliani «imparato» in casa Guatino e Fauvismo originario (ma non anche Nolde-0. travalica su Roma e poi ancora sui lati di «Corrente» più esistenziali eserpentinati. Straordinario il laboratorio romano. Ma anche qui è da scindere e da distinguere l'onirismo indicibile, la sontuosità febbrile che unisce e pur di- ilrizmllcfltssvefgdpqe stingue Scipione romano e la Raphael orientale-parigina dal patetico, torpido sposalizio fra Sou tine e Moravia celebrato da Pirandello: sul fondamento mitico dechirichiano. gli uomini rossi di Cagli sono fratelli della malata contemporaneità milanese degli uomini rossi di Sassu: su un altro versante ancora, l'incredibile «exploit», nella Rissa di Ziveri. di trasformare i Gladiatori di De Chirico in demoni populisti fra Ge'ricault e Goya apre la strada, tramite Guttuso. al protorealismo dei Cercatori di rane di Migneco. fratelli in deformità ossee delle statue di Mirko. Altrettanto scindibile è la «Corrente» di questi gemellaggi romani (Birolli e Badodi. Sassu e Migneco) dall'assoluto peso di Sironi sugli esordi di Cassinari e Morlotti (sezione curata da Armellini). Siamo al la tensione estrema degli Anni 30. e a Milano, tramite Banfi. l'«esistenzialismo» non è parola vuota, sia pure in confusa versione fra Cristo e Marx. Al di là di questa tensione, e al di là davvero di ogni ultima possi bilità di mediazione globale, s accampa il solo Vedova, che divora di un sol colpo mezzo secolo di Europa centrale per preludere addirittura a Gorky e ai «Cobra». Marco Rosei Cagli. La nave di Ulisse, dipinto (in alto) e, sotto, Ghitta Carell: ritratto della contessa Arrìvabene (sezione fotografica)