Ogaden, due popoli in trincea di Sandro Doglio

Ogaden, due popoli in trincea Tra Somalia e Etiopia una «guerra dimenticata» che ha trasformato in profughi quasi un milione di persone Ogaden, due popoli in trincea Da un anno il conflitto, nato da una delle «ingiustizie di frontiera» post-coloniali, si combatte lungo i fossati scavati nel deserto rosso - Nella terra di nessuno i somali hanno innalzato anche degli «spaventapasseri in divisa» - Ma basterebbe una scintilla (o un ordine) per far esplodere una polveriera alimentata dal confronto tra Urss e Usa - Mogadiscio: «11 mondo si è scordato di noi» DAL NOSTRO INVIATO BALANBALLE (Pronte dell'Ogaden) — L'unico rumore è il canto degli uccelli. Le sole cose che si muovono sono le foglie agitate dal vento, clic fa sventolare anche lo scialle azzurro e giallo che avvolge una serie di figure immobili, ritte fra t cespugli, incuranti del sole cocente e accecante: ma non sono uomini, sono pupazzi eretti nella «terrò di nessuno» dai soldati somali, forse per spaventare gli abissini, forse per far credere al nemico che non lo temono e lo aspettano in piedi. Siamo sulla linea di battaglia di una guerra dimenticata ormai da un anno, ma che tiene In armi due grossi eserciti, il somalo e l'etiope. Qui passa anche il più meridionale confine tra Est e Ovest: tra un Paese — l'Etiopia — elle era filoamericano ed è diventato comunista, ed uno Stato — la Somalia — che era feudo dell'Unione Sovietica ma che ha cacciato i russi scegliendo l'Occidente. Qui l'ideologia non conta: si ama chi aiuta, si odia chi arma il nemico. Il fronte è rappresentato da una lunga trincea scavata nella terra rossa, un'immagine che sa di prima guerra mondiale. Ogni cinque o sei metri nella fossa è acquattato un soldato con il fucile o la mitragliatrice o 11 bazooka puntato verso l'invisibile nemico. Alle spalle delle trincee, nascosti tra i cespugli, ci sono autoblindo e cannoncini. C'è anche uno spiazzo, delimitato da rami secchi, per la preghiera: vi sventola la bandiera verde del profeta Maometto. L'artiglieria pesante — dice il colonnello comandante del settore — sta quattro o cinque chilometri più indietro. Nessuno spara. Gli ultimi colpi di fucile e di mitragliatrice — il suolo è disseminato di bossoli — sono stati esplosi dieci giorni fa: una pattuglia somala è stata attaccata nella «terra di nessuno» dai soldati abissini; c'è stato un morto da questa parte, molti — dicono — dall'altra. Da un anno la guerra si riduce a qualche piccolo scontro: i due eserciti sono come in attesa che capiti qualcosa, che qualcuno si decida a tirare i fili di questo incredibile, assurdo fronte. Si ha come l'impressione che le grandi potenze clie stanno dietro i soldati indigeni — la Russia alle spalle degli etiopi, l'America nelle retrovie dei somali — abbiano deciso una tregua, senza però smobilitare. Basterebbe una scintilla, un ordine, per far riesplodere questo conflitto oggi congelato. Siamo arrivati quassù dopo un'ora di volo da Mogadiscio, per atterrare a Belet Ven, in un campo di terra. E poi su strada — la vecchia via dell' Impero, con asfalto d'epoca — e su piste polverose, per 150 chilometri massacranti. A pochi chilometri dal fronte sono accampati attorno al pozzo di Guriel 50 mila profughi somali fuggiti dall'Ogaden, con cammelli, mucche, capre, asini e tutti i loro miseri averi: «Gli etiopi quando arrivano uccidono tutti gli uomini e i bambini e violentano le donne», sostengono. Nella rada boscaglia e ai margini dello spiazzo che circonda il pozzo i profughi hanno cretto capanne di rami secchi a forma di semisfera appena coperte da qualche straccio. E aspetta- no. Il governo di Mogadiscio con l'aiuto dei Paesi europei e di quelli arabi — distribuisce loro un po' di zucchero e qualche chilo di spaghetti che, con la carne delle mandrie clic sono riusciti a portare con sé, rappresenta la base alimentare di ogni somalo. I profughi sono soprattutto nomadi, gente abituata a percorrere ogni giorno chilometri e chilometri in cerca di un pascolo e dell'acqua; oggi sono costretti all'immobilità. Qui a Guriel sono 50 mila; ma in tutta la Somalia i prò-' fughi sembra siano addirittura 700 mila. Aspettano, e sperano soltanto che la guerra finisca, per tornare al loro altipiano. Ma la guerra sembra eterna. E' un conflitto che nasce da lontano, da una rivendicazione vecchia forse di secoli, resa sanguinante da un'ingiustizia di frontiera che ha attribuito all'Etiopia quella vasta fetta di terra che sulle carte geografiche si chiama Ogaden, ma che è abitata — non c'è dubbio — da genti di origine somala. Tramontate le colonie, quando si decise di dare l'indipendenza all'ex Africa orientale italiana, nel 1960, il confine fu infatti tracciato con riga e matita sulla mappa, senza tener conto di chi abitava le terre. Somalia ed Etiopia erano allora entrambe nell'area occidentale: ad Addis Abeba c' era il Negus, amato a Londra e protetto da Washington; Mogadiscio per dieci anni era stata affidala dall'Onu alla tutela italiana. Al momento di tracciare i confini vinse il Negus. -Gli italiani non ricordavano forse neppure die noi esistevamo» sostiene Hussein Kolmie Afran, secondo vicepresidente della Somalia: -in quegli anni io sono stato ricevuto ufficialmente dalla buonanima di Moro, die per l'occasione ave¬ va schieralo per me ben tre interpreti: francese, inglese, arabo. Non sapeva che noi somali parliamo italiano, molti di noi avevano addiritturra studiato come me in Italia». Fra i due Stati per quella fetta di Ogaden ci fu subito tensione e guerra. Ne approfittò Mosca: 7500 «consiglieri» sovietici arrivarono in Somalia sulle ali della rivoluzione del 1972; pochi anni più tardi, con un colpo di Stato, caduto il Negus, l'Unione Sovietica mise la sua zampa anche sull'Etiopia. Approfittando del caos, i somali riuscirono a conquistare tutto il territorio conteso ma nel 1977 — con l'appoggio di russi e cubani, nel frattempo cacciati da Mogadiscio — l'esercito di Addis Abeba riprese il sopravvento, respingendo i soldati somali, andando addirittura al di là della vecchia frontiera artificiale. I somali ripiegarono portando con sé i profughi a decine, a centinaia di migliaia, in una emigrazione forzata senza precedenti in Africa. Ufficialmente la linea di frontiera sulla quale ci troviamo, 450 chilometri a nord di Mogadiscio, è chiamata Balanballe: in realtà la città di Balanballe si trova tre chilometri più avanti, al di là delle linee etiopiche. La città è stata infatti occupata un anno fa dall'esercito di Addis Abeba: con la testa di ponte di Galdolob. a 200 chilometri di distanza, occupata durante la stessa offensiva, rappresenta una minaccia sull'unica strada che attraversa la Somalia e che unisce Mogadiscio a Berbera. Se gli etiopi dovessero avanzare di pochi chilometri — gif stessi somali ammettono che potrebbero farlo con poco sforzo: loro non hanno quasi armi per difendersi — la Somalia resterebbe tagliata in due. E non ci sarebbe praticamente più ostacolo nella discesa dei nemici verso la capitale. I somali fanno affidamento su una garanzia di protezione data loro dagli Stati Uniti. Ma la garanzia non è scattata quando le truppe abissine hanno invaso Balanballe e Galdolob: si è probabilmente limitata a indurre russi e cubani che tirano le file dei movimenti etiopi a frenare 1' avanzata. «Il mondo ha dimenticato la nostra guerra» dice il colonnello Morgan, 36 anni, uno dei pochi militari al mondo che abbia avuto la ventura — per le vicissitudini politiche del suo Paese — di frequentare sia l'Accademia militare in Urss che la Scuola dei marines di Fort Lewert nel Kansas: «Ma noi qui viviamo giorno dopo giorno con l'incubo della distruzione, mentre terre somale continuano a essere occupate dagli etiopi e dai russi, che vi distruggono ogni cosa». Soluzioni o vie di uscita non se ne vedono. Dice Mohamed Ali Samantar, primo vicepresidente della Somalia, responsabile della Difesa e T.ffl9Wto forte» del governo di Mogadiscio: «Noi siamo per una soluzione pacifica, ma non possiamo dimenticare i diritti del popolo somalo die vive in quella regione, che storicamente non ha mai fatto parte dell'Etiopia e che ora è ridotta in situazione coloniale». Ma quale pace può accontentare due Paesi che si contendono per ragioni di prestigio un immenso territorio? Quale pace può nascere ira due eserciti dietro i quali ci sono le armi, le astuzie, la potenza, gli interessi dei due più grandi Paesi del mondo? Sandro Doglio ^OA KENYA

Persone citate: Hussein Kolmie Afran, Mohamed Ali, Moro, Negus