I frutti fantastici dell'albero Mirò

Ifrutti fantastici dell'albero Mirò UN ARTISTA CHE HA SAPUTO ESSERE COSCIENZA CRITICA DEL SUO TEMPO Ifrutti fantastici dell'albero Mirò Vinse la prima battaglia contro la famiglia, che voleva farne un contabile - Diventò un artista, anzi un artigiano, un «giardiniere» - Dal legame con la terra agli animali e alle figure fantasiose - La denuncia della guerra di Spagna: un dolore più interiorizzato, ma non meno intenso e tragico di quello di Picasso - Le Ceramiche; la crisi che per cinque anni gl'impedì di dipingere; i quadri distrutti col fuoco - Non ha mài cessato di cercare Nato a Barcellona nel 1893, Joan Mirò da tempo apparteneva alla leggenda ed. era consideralo un mito. Eppure, fino all'ultimo, pochi furono più modesti e vivi di quest'uomo piccolo e tarchiato, riservalo e concreto, lavoratore scrupoloso e metodico, come dovevano esserlo l'ore-, fice suo padre e i nonni, l'uno fabbro in Taragona, l'altro ebanista a Palma di Maiorca. Egli stesso si definiva artigiano e non artista. Precisando di sentirsi «un giardiniere... Diceva: «Le cose seguono il loro corso naturale. Spuntano, maturano. Bisogna fare innesti». Ricordando il suo lungo lavoro, è sorprendente quanto queste parole siano esatte, calzanti. Una sintesi perfetta dell'intero arco della sua arte. Fin da principio, infatti, una crescita organica, progressiva, dovè ógni ihrlesto era un laborioso, nccèsSUYió àcàrescimenlo. Proprio simile a una giovane pianta, quando i genitori, forzandone la vocazione, volevano costrìngerlo a fare il contabile, ne fu profondamente ferito. Si ammalò, dovettero mandarlo in campagna, a Montroig, dove avevano una tenuta. Qui, lentamente, riprese a dipingere e Mont-roig divenne il Ivogo prediletto, visitato e rivisitato, quasi simbolico della sua vita e della sua arte. La pianta succhiava linfa dalla terra — a riprova di quanto fu sempre importante questo rapporto con la terra, l'alga il suo ripetuto interesse per il piede «perché trae forza da essa» o il desiderio che il suo ultimo studio avesse per pavimento il nudo terreno — per poi protendere rami e fru Ita verso il ciclo. Un legame die non venne meno anclie quando, ventisettenne, si trasferì a Parigi e pian piano si sbiadi il ricordo, sia dell'alunnato presso Francisco Gali, un protagonista del Novecentismo catalano, come pure del fauvismo e del cubismo, scoperti alla Galleria Dui man dì Barcellona e da lui coniugati, spesso insieme, quando frequentava il Circolo Artistico di Sani Lluc. Ormai l'albero Mirò stava trovando la propria forma e gli innesti parigini dovevano ben presto produrre fruiti rigogliosi, originalissimi. In particolare quello del gruppo surrealista, in quel momento agli albori e a cui si uni in modo stretto. Ne ricevette una spinta, a cui già si sentiva fortemente predisposto, 'a cercare d fpndo^neU'inconscio, a rifiutare il piatto razionalismo che impediva una più ampia e reale conoscenza della natura umana, a liberarsi da quelle censure che comprimono la creatività dell'uomo. Vale forse la pena ricordare che il primo frutto fu un dipinto del 1923, ancora ispirato, come diceva il titolo, alla Terra arata di Mont-roig. Ma non più analizzata, come in precedenza, «foglia per foglia», bensì popolai a. ironicamente, di animali e figure fantasiose. Dove, in nuce, c'era già lutto il suo futuro mondo magico, chimerico. Era l'inizio di una fioritura eccezionale, durante la quale nacquero capolavori come II Carnevale d'Arlecchino, Il cane che abbaia alla luna, gli Interni olandesi. Un segno sinuoso che diventava un'armonica calligrafia che era soltanto sua. Forme strane, curiosi antropoidi che disponeva sulla tela secondo il gioco della fantasia. Una lucida scelta dell'immaginazione come mezzo, come lavoro per cambiare, per rendere più libera e migliore la società. Una società che stava inurbandosi, meccanizzandosi, impoverendosi di spiritualità e alla quale egli voleva ricordare antichi valori, come la semplicità, il piacere, la ma¬ gvcgdlaoarpaa gia della creazione e della vita. Una stagione felicissima che si protrasse fino alle soglie degli Anni Trenta, quando i tempi calamitosi che l'Europa stava cominciando a vivere, insinuarono diverse ombre nella sua pittura. Fino, a quel momento piena di speranze ma da allora sempre più carica di segni premonitori, minacciosi e infine di aperta denuncia. Esemplare a tale riguardo quella Natura morta con vecchia scarpa die dipìnse durante la guerra di Spagna e clic fu la sua Guernica. Un dolore più interiorizzalo di quello di Picasso, ma non meno intenso e tragico. Sempre con quel tenace, polemico attaccamento alla terra, alle cose umili. Un grido, un lamento inascoltato. Di li u poco il secondo conflitto mondiale. Mirò, rifugiatosi a Varengevilìe-sur-Mer in Normandia, dipinse la serie famosa delle «costellazioni:. Ventitré picco/i guazzi con i quali contrappose alla violenza e alla follia degli uomini, il lirico, solitario, intenso colloquio con le stelle, con il cielo. Ritornato in Spagna, finita la guerra, la speranza sembrò rianimarsi. L'Europa era colma di propositi, di fervore. New York gli aveva dedicato una grande retrospettiva. Era uscita la prima importante monografia. E insieme col compagno di un tempo, Llorens Artigas, incominciò a creare le ceramiche che riproponevano, con nuove forme, le sue vecchie magie. Quasi un ritorno agli archetipi mediterranei della sua Catalogna e a quelli dell'infanzia, sempre per dire del mistero delle origini, per testimoniarne i profondi segreti. Ma proprio questa prevalente, furiosa attività ceramica faceva capire die qualcosa dentro di lui si era incrinato. Malgrado il successo che tutto il mondo gli stava decretando, emergeva una crisi die aveva radici nella sua natura — conte aveva confessato7 — • «tragica e taciturna»; Ma che, nel fondo, investiva la fede nella pittura, nella sua capaciti d'incidere sulla società e di modificarla. Seguiranno anni pieni di dubbi. Per circa un quinquennio smise addirittura di dipingere. Poi, da indomilo combattente qual è sempre stalo, lentamente cominciò un nuovo, lungo periodo di ricerche. Ancora approfondimenti, ancora innesti. I quali ridussero i quadri a pochi essenziali colori e segni. Oppure a grandi forme nereggianti, occhieggianti paurosamente'. Altre volte adoperò i materiali più diversi. O usò la tela come traccia di un gesto elementare, assoluto. Provò persino a distruggere i quadri col fuoco, lasciandone brandelli di straordinaria espressività. Pur nell'autonomia e nella coerenza con il suo passato, è incredibile quanta consonanza con le esperienze che, in quegli stessi anni, venivano portate avanti dalle generazioni più giovani. La verdeggiante pianta di un tempo, da parecchio era un albero nodoso. Avanzava, inesorabile, la vecchiaia. Ma egli continuava a cercare, a sentirsi «un giardiniere». Attento alla crescita del ramo, agli innesti opportuni. Provava e riprovava, scandagliava sempre più nel profondo. Fino a sfiorare quel limite quando l'opera si distingue appena dalla cosa informe. Come acutamente rilevò uno dei suoi eseI geti, yWexandre Cirici, Quasi /ino a quel limite estremo oltre il quale c'è la misteriosa /olita di cui parlava il suo antico amico Arlaud. Purtroppo, mistificandone oltre tutto il vero significato, ' l'immagine finora più diffusa I della sua arte è stata quella fantasiosa e ludica, divulgata dal mercato. Si è tenuto in ombra die la sua grandezza, invece — come prova l'intera sua opera, compresa appunto laproduzione degli ultimi decenni — sta nel fatto che egli non ha mai cessato di cercare. Una ricerca poetica profonda, continua, con la quale si è opposto agli stereotipi, alle convenzioni, alla falsità. Un artista die ha saputo, come pochi, essere coscienza, testimonianza critica del proprio tempo. Francesco Vincitoi io 8! Alcuni momenti dell'arie di Joan Mirò pittore e scultore. Da sinistra; «Testa di fumatore» (1925), «Guazzo su caria nera» (1937), «Donna» (scultura in bronzo, 1950) e «Uovo» (ima singolare ceramica eseguita nel 1958) lima di Maiorca. Joan Mirò, qualche anno fa, al lavoro nel suo studio (Foto Grazia Neri)