Il reverendo batte il presidente di Furio Colombo

Il reverendo batte il presidente STATI UNITI: E' ORMAI UN'ARTE L'USO DELLA TV PER LA CACCIA AL VOTO Il reverendo batte il presidente Reagan è un maestro del gioco sul piccolo schermo: sconfisse Carter semplicemente scuotendo il capo - Ma ora il predicatore nero Jesse Jackson ha strappato «equa! time» alle grandi reti, ogni suo comizio è un happening - Walter Cronkite: «Un fenomeno nuovo: i giornalisti non sono più mediatori, si passa sulle loro teste e si va diritto al cuore della folla» NEW YORK — Nello scontro televisivo con Jlmmy Carter, Ronald Reagan aveva conquistato il cuore, e poi il voto, degli americani con un sorriso e una frase che sono subito diventati il simbolo della sua presidenza. Carter, con la fronte sudata, si stava sforzando di elencare i pericoli cìie il suo avversarlo avrebbe creato per l'America. Reagan ascoltava scuotendo la testa e sorridendo di un buon sorriso paziente. Quel gesto ha costretto le telecamere, che avrebbero dovuto restare su Carter, a spostarsi su Reagan. «Le telecamere hanno fame di immagini e Reagan sa come stuzzicare il loro appetito', aveva detto Walter Cronkite che allora era l'autorevole commentatore della Cbs. Quando è venuto il momento di rispondere, Reagan ha accentuato il suo gesto di gentile dissenso e calcolando benissimo t tempi ha detto al pubblico la famosa frase «There we go again» che si potrebbe tradurre «ci risiamo». Ma nel contesto del dibattito, e insieme al muoversi della testa e al sorriso, significava: «Se lo lasciate fare quello adesso ci rispiega tutto da capo». Dopo la frase una pausa deliberatamente lunga, dunque imprevista, occupata solo da un accentuarsi del sorriso. In quella pausa si è rovesciato unoscroscio di applausi che era ormai una promessa di voti. Molti si sono ricordati di -, quel modo geniale di spassar via l'avversarlo quando il re-1 verendo Jesse Jackson è salito sul pulpito della chiesa battista di Augusta in Georgia e ha cominciato a scandire la sua predica, che era anche l'annuncio politico della sua candidatura alla presidenza, con una piccola frase che alcuni hanno trovato un po' strana, nei primi minuti. La frase era: «Vi rubo solo un minuto». La trovata consisteva in questo: la piccola frase si alternava a comunicazioni dure, drammatiche, tlpo\ «Vi rubo solo un minuto, ma dovete sapere che in tutto il Paese non c'è un solo sceriffo negro»; «Vi rubo solo un minuto, ma vorrei ricordarvi che nessun negro siede al Senato». Dopo cinque, dieci ripetisioni quell'espressione colloquiale («Vi rubo solo un minuto») ha cominciato a suonare come un tamburo, come un segnale di raccolta. La gente la ripeteva in coro con', lui, dialogava, gli rispondeva. «Val avanti», «Ti ascoltiamo», tutto ciò è continuato fino a quando Jackson ha portato il suo auditorio a un clima di tensione quasi drammatico. Eppure non c'era niente di nuovo nelle sue parole, niente che la gentegià non sapesse. Un predicatore negro, noto per essere stato vicinò a Martin Luther King nel movimento per i diritti civili, era venuto a ripetere luoghi comuni intercalandoli, inoltre, con tre o quattro parole che sono il ro-\ vesclo della grande retorica politica. Ma la polizia di Augusta dice di avere temuto, quel giorno, per l'ordine pubblico. 2 -m -r ■ ■ ■ Poche chances Non si sa come /'.America reagirà alla candidatura di Jesse Jackson. Si sa che tecnicamente le sue chances di presentarsi come avversario di Reagan sono quasi Inesistenti. Ma si vede benissimo, 'seguendo la televisione e i giornali, che Jackson, e lui solo, non Mondale, non Olenn, gode di un «equa! time- con il presidente degli Stati Uniti. La televisione non perde mai un suo discorso, giornali come il Washington Post arrivano a dargli una pagina intera, Mike Wallace gli ha dedicato un terso della sua celebre trasmissio¬ ne Sixty mlnutes, seguita ogni domenica sera da più. di cento milioni di americani. '■ Per Jackson è stata invenI tata una risposta corale della folla che ha un effetto elettrizzante (una delle ragioni che fa correre le telecamere). Ad ogni pausa del suoi discorsi la gente grida in coro scandito: «Run, Jesse, run» («Patti avanti, Jesse, presentati alle elezioni», ma si tradurrebbe meglio, per a/finità' di suoni, «Forza, Jesse, forza») e l'effetto che si crea intorno alle sue prediche non ha più alcun riferimento alla sua effettiva forza politica. Jackson invade l'attenzione degli americani attraverso i media. «E i media li sa manovrare In modo stupendo», ha osservato Daniel Yanckelovich, uno dei grandi esperti di opinione in America. In questo strano rapporto di -tempi uguali- fra il presidente più popolare che l'America abbia avuto dal tempi dì Eisenhower e il predicatore negro che praticamente non ha alcun sostegno politico ma gode di una immensa attenzione, Reagan non è restato indietro neppure di un minuto o di una battuta. Durante la conferenza stampa dopo l'invasione di Grenada un reporter gli ha chiesto: «Presidente, come farà adesso a condannare l'Invasione dei russi in Afghanistan?», Reagan si è voltato lentamente verso il reporter, ha guardato in alto e ha detto soltanto: «Santo Dio, come può farmi una domanda simile?». Gii altri reporter* per poco non applaudivano, ha notato Whitney Craig, il capo redattore esteri del New York Times. In questi giorni la stampa americana si sforza di mostrare avversione verso la Casa Bianca perché i reporters e i cameramen sono stati esclusi dallo sbarco a Grenada. «Eppure è impossibile tenergli 11 broncio», dice Rone Aldrege, presidente della rete televisiva Abc. Si rende conto, e con lui i grandi «Anchor men», i celebri presentatori televisivi, che i loro potenti strumenti hanno un limite: Reagan raggiunge direttamente la gente, in casa. La gente ascolta lui, non i commenti. Dopo Beirut la stampa americana è stata dura nel criticare il presidente su due i delicatissimi punti. «Non abbiamo una politica chiara in Medio Oriente» («Che cosa facciamo a Beirut?» era il titolo più vistoso del Los Angeles Times) e «Perché nessuno ha pensato a difendere meglio 1 nostri soldati». / sondaggi di opinione hanno mostrato che la gente non aspettava risposte a queste domande. Reagan ne è uscito con una approvazione popolare di parecchi punti più alta di prima della tragedia. «La televisione placa l'oltraggio e normalizza la vita», ha scritto il massìnediologo Tom Shales. Ronald Reagan conosce meglio di chiunque ■altro prima di lui l'uso delicato di questo strumento. Conduce con forza e raccoglie consenso. Confrontando il talento di Reagan con la 1 straordinaria bravura di Jes\se Jackson, che ha strappato \la sua parte di -media timea partire dal suo piccolo pulpito di predicatore battista a Chicago, l'opinione degli \espertl americani è divisa. I cameramen j «E' più facile per il brillante sconosciuto farsi notare, che per un presidente che regna in televisione da tre anni restare al centro dell'attenzione,-, dice il -pollster- Pat '.Cadeel che pure è democratico e più vicino a Jackson.! Jackson certo sa calzare coirne un guanto le opportunità ■offerte dalle comunicazioni di massa. «Il giorno della celebrazione di Martin Luther King a Washington, tutti i ì giornalisti se ne stavano sdraiati sull'erba scarabocchiando sul loro taccuini, i cameramen giocavano a carte accanto al trepledl delle loro Sony portatili All'improvviso tutti scattano in piedi, e 11 loro stesso movimento scuote la folla: è arri¬ vato al microfono Jesse Jackson», ha scritto William Brashler, che pure non è affatto un simpatizzante del leader negro, sul periodico democratico New Republic. Jackson non lascia cadere nel vuoto l'attenzione dei media. Per esempio, nel suo discorso di Washington, dopo avere accelerato molto la tensione e il ritmo c'è una pausa e poi, ripetuta due volte, una frase quasi incomprensibile, sul momento. «Ci sono pietre che se ne stanno per terra». Pensate a duecentomila persone che si erano abituate all'incalzare intenso del discorso politico e della predica religiosa e all'improvvisano incontrano un silenzio e poi una frase che ha un suono poetico, ma non è chiara. Segue di nuovo un silenzio. L'attenzione diventa enorme. La frase adesso sta avendo un destino simile al famoso verso di Bob Dylan: «Come le pietre che rotolano», in cui ha trovato la sua definizione la generazione degli Anni Sessanta e il famoso gruppo del Rolling Stones «Le pietre che se ne stanno per terra» sono l negri che non votano e si lasciano buttar via dalla storia, sono coloro che non partecipano, sono coloro che si escludono da soli dalla possibilità di decidere il proprio destino. In pochi giorni il nuovo slogan della mobilitazione ha fatto il giro del Paese, è diventato una parola id'ordine. «Il fenomeno a cui stiamo assistendo è nuovo, nella cultura democratica», commento Walter Cronkite. «Tutti in passato abbiamo creduto nel potere della televisione, ma non nel potere attraverso la televisione. Pensavamo a noi come ai mediatori che hanno un potere di vita e di morte sulla notizia, sul volto e sul. fascino del personaggi. Ma non è vero. Questa volta si gioca sopra le nostre teste». Reagan e Jackson cioè non devono piacere ai giornalisti e al commentatori. Si muovono intatti attraverso siepi di critiche e barriere dt attacchi e vanno dritti alla folla che li ascolta, li sostiene, li accetta. Una vampata di patriottismo ha percorso l'America seguendo Reagan, proprio quando tutti i commentatori più autorevoli del Paese e metà dei suoi rappresentanti politici erano impegnati a dimostrare gli errori del presidente. Jesse Jackson ha presentato la sua candidatura contro tutto l'apparato del partito democratico, mobilita folle e riempie piazze nonostante le critiche, e le insinuazioni sul suo passato. Hanno cercato persino di accennare a certe leggerezze amministrative della «Operazione Push», la sua organizzazione per l'avanzamento dei diritti dei negri a Chicago. «Ma Jackson e Reagan sembrano capaci di camminare sull'acqua», ha notato il senatore democratico Tsongas del Massachusetts che non è entusiasta né dell'uno né dell'altro. Ronald Reagan e Jesse Jackson sono finora l due soli uomini politici capaci di trarre tutto il frutto possibile dall'orientamento che una recentissima inchiesta d'opinione del New York Times e della Cbs ha messo in luce. Due americani su tre, rivela l'inchiesta, non sono sensibili alle posizioni politiche ma solo alle qualità personali dei candidati. Poiché però il candidato si rivela soprattutto nel piccolo schermo, le qualità che il pubblico percepisce sono quelle che appaiono nel comizio-spettacolo. Il discorso politico non interessa, nessuno sta attento al giudizio di commentatori e di esperti. Interessa la persona. Eccola in tutta la sua verità: è la verità che sa dare di se stessa nel rapporto con la folla che osserva. L'onestà dipende dalla voce, la fermezza dal volto, l'affidamento dai gesti, la sicurezza dallo sguardo, la capacità di comprensione e di compassione dagli occhi. Intonazioni di voce, pause e ritmo servono a imprimere bene l'immagine. Si pensi a quanto ha dichiarato la signora Alice Friday, negra, classe media, educazione di scuola media, una delle mille e duecento persone su cui la ricerca si basa: «Io chiedo a un presidente di essere integro, esperto e buon cristiano». «Come può saperlo?», le è stato chiesto. «Lo vedo», ha risposto. Furio Colombo oa i -, r vcBfldndsf Washington. Il reverendo Jesse Jackson duranle una dimostrazione contro la politica di Reagan