Dal cucchiaio alla metropoli

Dalcucchiaio alla metropoli MILANO TORNA A ESSERE LA CAPITALE MONDIALE DEL «DESIGN» Dalcucchiaio alla metropoli Era la formula dell'architetto Rogers - Credeva in una «forza progettuale» capace di programmare ogni cosa: il cucchiaio come l'intervento urbanistico - Oggi, nella società postmoderna e postindustriale, c'è quasi un «rompete le righe», un ritorno all'estro - Ecco le sorprese e le provocazioni d'una sfilata di cento designerà e di altre mostre MILANO — Nell'ultima settimana di ottobre Milano è stata, o è tornata a essere, la capitale mondiale del design. L'occasione è venuta dalla riunione biennale che l'icsid (International Council of Societies of Industriai Design) tiene in gualche metropoli, e questa volta il ruolo dell'ospitante è toccato al capoluogo lombardo. Centinaia di addetti ai lavori hanno frequentato le poche giornate e le molte seeioni di un congresso di proporeioni gigantesche, svoltosi a porte chiuse e con un'onerosa tassa di iscrizione. Il cittadino comune, quindi, non ha potuto partecipare. Ma per sua fortuna restano ancora visibili alcune delle molte mostre che si è pensato bene di accompagnare all'avvenimento, e che consentono anche di fare il punto sulle coordinate del problema, così come si pone oggiTré di queste rassegne si raccomandano per particolare importartela. Una di esse è sita nella Galleria del Sagrato (del Duomo) e si rivolge a fare la storia del «Visual Design» nell'arco storico che dal 1933 giunge ai nostri giorni (a cura di Iliprandi, Marangoni, Origoni, Pansera). Per «visual design» si intende in sostanza la grafica industriale e pubblicitaria, capitolo am-. pio e influente, e molto ben illustrato in questa occasione. Ma ci permetteremo di accantonarlo, dato appunto il suo carattere storico che porterebbe molto lontano. Evidentemente, le attese di tutti vanno in primo luogo all'attualità, con un interrogativo assillante: cosa succede oggi? Quali sono le carte sul tappeto? Una svolta? A questi interrogativi tentano di rispondere due altre mostre, di cui la più ampia è ospitata nel Paleso dell'Arte, sede deputata delia Triennale,"kfèèati titolo 'àìteìtatité «Dal cucchiàio alla città», sotto il quale Carla Venosta ha convitato ben 100 designers (80 italiani, 20 stranieri), proponendoli con un asettico ordine alfabetico, dall'A alla Z, senea distinguere tra stili, tecniche, campi di inter* vento. E' vero però che già il titolo stesso sembra effettuare una scelta, dato che, come ricorda la curatrice nell'introduzione al catalogo (stampato dall'Eleda), la formula «dal cucchiaio alla città» era stata avanzata dall'architetto Rogers e nasceva in un momento contrassegnato da una massima fiducia «moderna nel design, inteso come una forza progettuale capace di programmare ogni aspetto della convivenza sociale, dagli oggetti minimi del «pae- saggio domestico», quali le posate, ai grandi interventi urbanistici: il sogno di una pianificazione di ferro fondata sugli schemi della raziona-, lltà, a loro volta alleati ali progresso, alla crescita indefinita resa possibile dalla tee- ■ nologla delle macchine alimentate con l'energia termica, e in particolare con gli idrocarburi. Una stagione di fede nelle «magnifiche sorti e progressive». Ma oggi viviamo in un'epoca postmoderna, postindustriale, dove semmai la tecnologia pilota è quella di specie elettronica, che non ama più i prodotti «duri», rigidi, ingombranti e pesanti, ma forme e sembianze «soffici», discrete, e che in ogni caso, per nostra grande fortuna, non richiede grandi investimenti energetici. Infatti c'è stata di mezzo la crisi mondiale degli idrocarburi che ci ha obbligato a fare i conti con la penuria, o con i costi rialzati degli approvvigionamenti energetici. \,,E>npn.!è. ancora tutto, non basta cioè contrapporli II «duro» .e.il^soffiòé». La prìf. spettiva «soffice» introdotta dal postmoderno (altri la chiamerebbe «debole») ha aperto le porte anche al ritorno del rimosso, al risorgere del fantasmi del passato, perfino a un rinnovato interesse per i sistemi produttivi di tipo artigianale, con le varie esigenze di recupero del colore, della decorazione, di un suadente piacere dei sensi. Ma la mostra al Palazzo dell'Arte si cautela anche su questo fronte, lasciando capire che quel due termini sbandierati nel titolo, il cucchiaio e la città, possono essere intesi anche in senso riduttivo, come due indicazioni di comodo. In sostanza, i designerà sono stati chiamati a impegnarsi su un tema piccolo e su uno grande, o su uno privato e uno pubblico, uno interno e uno esterno, fino1 addirittura a recuperare una opposizione veramente minimale, antropologica, legata a due funzioni elementari come il nutrimento (il cucchiaio) e il riparo (la città). Così si ridimensiona e si abbassa la pretesa «forte», austeramente pianificatrice, che già fu del Movimento Moderno. In sostanza, è quasi un •rompete le righe», un «fate come volete», seguite la vostra stella, il vostro estro. Un invito che dunque si trasmetterà anche al pubblico. Entro la lunga sfilata alfabetica dei 100 designers, ognuno potrà fare le sue Ubere scelte. Avremo dunque alcuni espositori per t quali continuano a valere le parole d'orbine del •moderno», sul tipo di «l'ornamento è un delitto», oppure «il meno vale di più».' Ecco il famoso portacenere formato scatola di Bruno Munari, o i recenti «panettoni» per il traffico di Enzo Mari, o l'austero, irreprensibile trattamento della metropolitana milanese escogitato dallo studio AlbinUHelg-Piva, a unasemplice,.funzionale, ingegnosa «residenza mobile d'emergenza» proposta da Marco Zanuso, o la famosa lampada Gibigiana di Achille Castiglioni, prova egregia di sottrazione, di riduzione ai-, l'osso. Caffettiere Dall'altra parte scendono in campo i più cospicui rappresentanti del postmoderno, guidati da alcuni architetti che hanno fatto le loro prove plU note e convincenti al livello macroscopico della città, o almeno degli edifici monumentali, ma che dall'alto di quella posizione calano per conquistare i formati minori dell'attrezzeria domestica. E' curioso constatare che due capofila come Aldo Rossi e Robert Venturi si misurano entrambi sul tema casalingo della caffettiera, ma trattandolo come se fosse una co-' straziane maestosa, ricca di curve e di memorie. Un architetto provocatore e blasfemo come Riccardo Datisi, su questa strada, giunge quasi a smobilitare il design e i suoi fasti, dandosi a studiare le vecchie caffettiere napoletane uscite dall'artigianato. Il giapponese Afata Isozaki rende omaggiò, ài movimenti liberti/ e secessionisti della fin-de-siècle europea, propo-' nendo una poltrona che si ispira al grande Mclntosh, e un edificio quasi di gusto «viennese». D'altra parte, forse che quei nostri movimenti non erano a loro volta intrisi di spirito «giapponese» ? Ma gli episodi più sintomatici provengono forse da A lessandro Mendini, nella sua doppia veste di teorico e di progettista-produttore (nell'ambito dello «Studio Alchimia»). In mostra presenta un «sistema» per uffici che appunto intende tener conto della svolta elettronica, e offrirsi dunque in vesti «soffici», potremmo quasi dire collassate, senza piale durezze e le splgolosità che caratterizzano l'arredo «moderno», e che in questa esposizione trionfano offrendo molte va- rianti di «sistemi di sedute», come vengono definiti in gergo tecnico. La «specialità» di Mendini e dei suoi seguaci sta però soprattutto nell'introduzione del colore, attraverso motivi decorativi, quozienti di eccentricità e di capriccio. Come dire che la nostra società, giunta nell'epoca del post-tutto, può osare, concedersi il «più», l'eccessivo, il Scrmplicato.ilwiper/Iuo. Sia chiaro tuttavia che 'questi due «partiti» fun contro l'altro armati, è il presente cronista e spettatore a ricavarli, secondo i propri gusti, da una successione espositiva ferma invece all'asettico e neutro ordine alfabetico. Ciò corrisponde del resto a un'implicita strategia della curatrice, che preferisce condurre un discorso globale, quasi corporativo, tenendo raccolte in un unico mazzo tutte le possibilità e risorse. Quanto è implicito nel discorso della Venosta, si fa esplicito in quello di Anty Pansera, curatrice della terza delle rassegne in questione, sita al Padiglione di Arte contemporanea (catalogo Attuari). Anche in questo caso, il titolo offre già utili indicazioni. Esso consiste in una perentoria affermazione, «E' design», che appunto lascia scorgere una strategia unificante, decisa a non sacrificare alcuna delle possibilità offerte dalla situazione attuale. Ad avviso della Pansera, è design quello che si affida alla produzione di serie e al «gran numero» (i mobili di Casa-Kit, semplici e funzionali), ma anche, all'estremo opposto, il numero ridotto, al limite col pezzo unico, che esce dalle mani del sarto di classe (Versace), oppure del costruttore di macro-utensili, quasi di natura artigianale, sul tipo delle imbarcazioni da diporto. Ecco quindi l'omaggio d'obbligo a Vallicelli e ad Azzurra (reclutati però dalla curatrice molto prima che si conoscesse il buon esito della loro impresa). Fra l'altro, in questo caso si di il cortocircuito, già più volte notato da molti, tra il futuro dell'elettronica e il passato remoto dell'artigianalità arcaica. I segreti atavici delle imbarcazioni leggere, infatti, vengono verificati oggi con l'aiuto del computer. E ancora, ecco la poltrona Dorsal, messa a punto da Anbasz e Piretri, un tentativo di conciliare il «duro» dell'arredo funzionale col «soffice» delle esigenze fisiologiche del corpo umano. E nel mazzo è giusto che siano compresi anche t progetti per l'automobile (la Panda di Giugiaro), luogo di incontro tra l'interno e l'esterno (tra il cucchiaio e la città), o infine le soluzioni segnaletiche apprestate cbn'gràiidè iritelHpenea, per usi furiatici e informativi, dallo Studio Mid. Insomma, grazie a un'abile strategia di allentamento delle proprie maglie, e di inglobamento di prospettive varie e flessibili, il design si mette in condizione di affrontare con speranza la prossima fine-secolo, che è anche l'avvio a un nuovo millennio. Renato Barili! no. edia moderna milio Anbasz destra, a postmoderna rata Isozaki ostra alazzo dell'arte Milano. I a\ sedia moderna di Emilio Anbasz e, a destra, quella postmoderna di Arata Isozaki in mostra al Palazzo dell'arte

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