Pakistan,un ayatollah in divisa

Pokistoiy un ayatollah in divisti Sanguinosi tumulti sconvolgono il Paese da dieci giorni: esercito e polizia hanno l'ordine di sparare sui dimostranti Pokistoiy un ayatollah in divisti 11 presidente Zia rifiuta qualsiasi dialogo con l'opposizione che chiede le elezioni e la fine della legge marziale - Dietro la rivolta ci sono i grandi proprietari del Sind che si riconoscevano nel Partito Popolare di Bhutto - Il generale punta sull'integralismo religioso per assicurarsi la presidenza a vita, ma la legge coranica soffoca ormai le città - Ancora cortei, scontri e processi sommari Da nove giorni ormai il bollettino serale delle autorità federali del Pakistan si chiude con l'elenco quotidiano dei condannati dai tribunali militari. Sono processi per direttissima, dove gli imputati non hanno diritto all'assistenza d'un difensore; i giudici leggono l'imputazione, ascoltano l'accusato e le testimonianze dei poliziotti, poi emettono la condanna. E' una formula fissa: un anno di prigione e venti frustate. Avanti un altro. 11 Pakistan è in fermento. Cortei di dimostranti sfilano per le strade principali delle citta e dei villaggi, gridano slogan contro il presidente Zia-UI-haq, si scontrano con la polizia e con l'esercito. La protesta è cominciata dieci giorni fa, la guida una coalizione di partiti che si definisce Movimento per la Restali razione della Democrazia chiede elezioni politiche e la fine della legge marziale. Doveva essere una campagna di disobbedienza civile, qualcosa di simile a quello che aveva messo su l'odiato Mahatma Gandhi tanto tempo fa: la non violenza, l'autodenuncia alla magistratura, i gesti e le scelte d'una protesta pacifica che frantuma il meccanismo perverso della repressione autoritaria. Ma è diventata una guerra. I soldati sparano ad altezza d'uomo, i morti sono 18 nel conto delle autorità ma «più di 60» nelle dichiarazioni del Mrd; sono stati incendiati uffici governativi, banche, tri bunall, stazioni ferroviarie Due prigioni sono state assalite, i detenuti ora si godono una libertà insperata e prov visoria; dall'altro ieri le picco le banche delle città dell'in terno hanno chiuso i loro sportelli trasferendo i fondi nei forzieri più sicuri di Labore e Islamabad. Zia Ul-haq ammonisce i suoi concittadini «a non lasciarsi fuorviare da mestatori nemici dell'Islam e del Pakistan». Ma le manifestazioni continuano,' e il presidente per fare il suo discorso a Karachi ha preferito farsi trasportare sulla piazza da un elicottero; il monsone, hanno spiegato i portavoce del generale Ul-haq, aveva danneggiato le strade ed era più sicuro arrivare dall'alto. Il discorso del generale ha avuto 15 mila ascoltatori entusiasti, almeno cosi dicono le agenzie ufficiali; ma Karachi è una città in sommossa, e 11 centri della provincia (a metà tra i grossi villaggi agricoli e le piccole città della campagna) sono pattugliati da reparti dell'esercito. Gli arresti in massa non frenano ancora la protesta, gli studenti si uniscono agli operai in sciopero; ci sono stati anche cortei di sole donne: e, per un Paese chiuso ancora nel conformismo rigido delle regole islàmiche, quei cortei valgono quanto una rivoluzione, o comunque danno il segno più serio della profondità del malessere sociale. La ribellione però non è ancora una rivolta. A parte Karachi, le grandi città del Pakistan continueranno la loro vita senza tensioni apparenti: i leader dei vecchi partili sono già tutti in galera, oppure si nascondono alla caccia della polizia politica, e non v'è traccia di mobilitazioni popolari. La protesta è confinata alla provincia, finora anzi si è li¬ mitata alle campagne del Sud, nella regione del Sind che è una delle quattro parti in cui è diviso amministrativamente il Paese. Il generale Zia Ul-haq conosce bene i suoi avversari. Quando prese il potere nel '77, fece impiccare Ali Bhutto per liberarsi da ogni rischio politico. In sci anni ha avuto modo di dar basi consistenti alla sua dittatura militare, utilizzando a dovere la polizia e spedendo in esilio i più agitati tra i suoi nemici; ma il Pakistan è un Paese inventato, una federazione posticcia che 11 crollo dell'impero britanni- co impose per dare una terra e un governo ai milioni di musulmani dell'India: e né Jinnah, ne il maresciallo Ayub Khan, e nemmeno Bhutto, sono riusciti a dargli finora una vera identità. Il nazionalismo Dindin si ribella ora al predominio eccessivo del Punjab, che controlla il governo locale, le forze armate, perfino le ferrovie: dietro la rivolta ci sono cosi soprattutto i grandi proprietari delle campagne del Sind che si riconoscevano nel partito popolare di Bhutto, e non basta l'arresto di Ghulam Mustafa e Mumtax Ali Bhutto (cugino dell'ex primo ministro) a spegnere l'eco delle loro parole di protesta. Solo che ad ascoltarle, e a muoversi sono finora i loro conterranei, ma non i puniabhi né le tribù guerrigliero del Baluchistan. E fin quando la ribellione non s'allarga, 1 rischi per il gene rale Ul-haq sono piuttosto modesti. * Certo, le dittature non han no mai solidità. Il loro futuro é sempre una pagina strappata a una sorte che si mostra inevitabile, e le paure della destabilizzazione incancreniscono la capacità d'una risposta adeguata al rischio. Il generale ha tentato di difendersene finora accentuando i caratteri religiosi del suo governo e promettendo per il mar zo dell'85 un ritorno «parzia le» al volo politico. Sollecitalo e incoraggiato dai finanziamenti dell'Arabia Saudita, Zia Ul-haq sta imponendo al suo Paese un costu me d'integralismo religioso che contrasta duramente con una realtà del tutto diversa da quella degli scciccati del Golfo: per quanto largamen¬ te ancora agricola, l'economia pakistana è comunque diversificata e innervata da una diffusa microstruttura industriale, con un tasso d'urbanizzazione molto alto; una simile composizione sociale mal sopporta gli eccessi imposti dal governo, tanto più che la loro pratica è poi dominata non dagli ulema (dottori di teologia) ma dal fanatismo del maulvis, settari e intransigenti quanto i preti dell'Inquisizlone. La legge coranica soffoca la vita delle città. Jnnab è scomparso dai grandi ritratti appesi negli uffici e nei palazzi pubblici riapparendo dopo qualche tempo in nuovi panni : non più giacca e cravatta, ma in scherwani nero, chiuso lino al collo. Le donne vengono considerate quanto la metà d'un uomo: tanto vale il loro sangue, per esempio, e solo la testimonianza di due don ne può pareggiare quella d'un uomo. Si creano licei c università distinti per sesso, si chic de il ritorno di tutte le donne dentro le mura di casa. Si discute se anche il loro voto vai ga la metà. A queste tensioni, che lacerano in profondo le speranze di Zia Ul-haq di guadagnarsi una base consistente per il mantenimento del potere, sì sommano i nazionalismi che minano l'unità stessa della federazione pakistana. Il ricordo del Bangladesh è un incubo politico, e le rivolte che agi tano i deserti montagnosi del le genti baluchi sono una mi naccia costante, alla quale la protesta sindhi può dare in questi giorni un esempio pericolosamente contagioso. Quando il generale parla di «mestatori nemici del Paki¬ stan» il suo, in fondo, non è solo un artificio retorico: dopo l'invasione russa dell'Afghanistan, la sua terra è diventata prima linea, frontiera di un Occidente che ha finito per doverlo accettare più di quanto avrebbe inai creduto. Rcagan gli ha mandato dalla base texana di Fort Worth la prima squadriglia di P-16, e l'aeroporto di Sargodha ora fa parte della rete protettiva che gli Usa hanno tirato su nel Golfo per parare ogni minaccia ai pozzi petroliferi. Ulhaq, come gli sceicchi della penisola arabica, ha detto ufficialmente no alla Rapid Deploymcnt Force americana; di fatto, ha integrato il suo Paese in uno schieramento strategico che difende gl'interessi dell'Occidente al confine con l'Iran, l'Afghanistan e la Cina. La cosa che oggi interessa di più al generale Zia è d'assicurarsi la successione a se stesso. L'assegnazione di molti incarichi pubblici agli alti ufficiali dell'esercito gli dà la garanzia d'una struttura di potere ramificata all'interno della società; il progetto d'una modifica della Costituzione in termini ancor più presidenziali gli prepara un supporto Istituzionale. La mano libera lasciata ai maulvis tenta forse di fissare nei caratteri islamici quella identità che finora è mancala al Pakistan. Tutto, insomma, dovrebbe proteggere il suo disegno politico, dargli certezza delle sue ambizioni di presidente a vita. Ma la ribellione che muove dalle campagne del Sind conferma ancora una volta che le speranze della dittatura sono sempre castelli di carta. Mimmo Candito a o o e e e Hyderabnd (Pakistan meridionale). Il presidente pakistano Zia Ul-haq in un'intervista ha affermato che le elezioni locali nella travagliata provincia del Sind si svolgeranno come previsto nonostante «le deplorevoli violenze dei giorni scorsi». Specificato che le «autorità tengono sodo controllo la situazione», si sta cercando di fare un primo bilancio delle vittime degli scontri. Cifre ufficiali parlano di 18 morti durante la protesta. Fonti del Mrd (Movimento per il ritorno della democrazia) dicono invece che le vittime sono 60 (Tclcfoto United Press International)

Persone citate: Ali Bhutto, Ayub Khan, Bhutto, Jinnah, Mahatma Gandhi, Mimmo Candito, Worth