Hitler esorcizzato

Hitler esorcizzato DEMONIZZARLO NON SERVE A CAPIRLO Hitler esorcizzato Fédor Dostoevskij ci ha dato ne / Demoni, costruiti sulla vicenda reale dello spietato Nccaev, una rappresentazione letterariamente grandiosa di un fenomeno che, dopo di lui, la storiografìa doveva riprendere in relazione alle vicende tragiche soprattutto del nazismo e dello stalinismo: la brama del potere che, schiacciando ogni valore etico e senso di umanità, persegue i suoi scopi con ogni mezzo. E in campo storiografico indubbiamente il più celebre, e anche affascinante, libro scritto su questo argomento è quello di Gerhard Ritter, // volto demoniaco del potere, il quale partiva da Machiavelli e giungeva al diretto bersaglio: il fascismo internazionale e in specie il nazismo. Klaus Hildebrand, autore di un'opera sul nazismo uscita nel 1979 in Germania e ora pubblicata da Laterza, // Terzo Reicb, prende le mosse proprio dalla critica della «demonizzazione» come .categoria di interpretazione storica, che, dice, «sotto il profilo scientifico non può più essere ritenuta soddisfacente». Questa affermazione mi pare, in sé e per sé, totalmente da condividere. E non tanto perché oggi lo storico che studi fenomeni come il nazismo può farlo in modo più distaccato che non nel passato; ma perché, una volta che abbia fatto una scelta in termini di «demonizzazione» o meno di un certo fenomeno, lo storico non ha ancora compiuto rispetto alla comprensione del fenomeno stesso il minimo passo avanti. Il che non signi fica che il «demoniaco» nella storia non esista; ma che csi stc solo perché noi lo faccia mo esistere in base ai nostri valori, e perciò attiene al piano della coscienza e non è in grado di spiegare la realtà effettuale. Il libro di Hildebrand è un libro interessante e utile, anche per il modo in cui è costruito. Dopo una rapida ma essenziale e ben strutturata storia del Terzo Rcich, seguono una seconda e terza parte, dedicate rispettivamente ad una articolata rassegna delle ormai numerosissime interpretazioni storiografiche e alle fonti. E direi che la parte senz'altro più stimolante è proprio quella che riguarda i problemi di interpretazione, in cui lo studioso, mentre fa capire le altrui posizioni, evidenzia e giustifica i propri orientamenti. 1 punti centrali mi sembra no i seguenti: il rapporto fra nazismo e fascismo italiano e la possibilità o meno di comprendere sotto la categoria generale di fascismo internazionale entrambi i fenomeni storici; la questione del ruolo di Hitler nel sistema di potere da lui fondato e la riducibilità o meno del nazismo all'hitlerismo (insomma: la questione della funzione della personali tà nella storia); la fecondità maggiore o minore dell'assimilazione del nazismo a creatura-strumento del capitalismo oppure, per contro, a prodotto della crisi istituzionale dello Stato liberale e quindi a incarnazione del totalitarismo; la ricerca delle radici del nazismo nella storia tedesca. Un punto poi che mi preme sottolineare è l'annotazione di Hildebrand secondo cui tutti i filoni interpretativi fondamentali intorno a cui si è tanto affaticata l'ormai imponente storiografia sul nazismo erano già stati messi a nudo dai contemporanei. Aggiungo che la stessa annotazione deve essere fatta per il fascismo italiano e per lo stalinismo (ma per quanti altri periodi storici vale la stessa considerazione?). Circa l'uso della categoria di fascismo internazionale, l'autore ritiene di concludere che essa finisca per risultare troppo ampia e persino deviarne. Egli pensa che la politica estera e la politica razziale di Italia e Germania siano state troppo diverse per consentire la sussunzione di fascismo italiano e nazismo sotto un'unica categoria. Non mi sento di seguirlo. Tutte le categorie generali poggiano per loro narura su schematizzazioni, e mostrano, di fronte alla concretezza della realtà nei suoi vari aspetti, limiti evidenti. Se nazismo e fascismo si sono differenziati in modo profondo per molte im¬ portanti e decisive questioni, e anche sul piano ideologico, rimane il fatto innegabile — e non espungibile in sede di riflessione posteriore —che furono gli stessi fascisti e nazisti i loro oppositori a sentire l'analogia come assai più che esteriore. Quando disse che, senza fascismo, non vi sarebbe stato nazismo, Hitler fece qualcosa di ben più serio di un semplice atto di omaggio al suo «maestro». L'antiliberalismo, l'antimarxismo, il plcbiscitarismo, il regime a partito unico sono pietre troppo pesanti per essere messe da canto come secondarie rispetto alle pur reali differenze. ** Molto felici, invece, ritengo siano le considerazioni di Hildebrand sul nesso fra Hitler e il suo contesto storico. E qui egli sottolinea con forza come si debbano evitare in quanto egualmente sterili sia la superpersonalizzazione del nazismo fino al suo. annegamento nell'hitlerismo sia la riduzione di Hitler a semplice «pupazzo» di forze strutturali e in ultima analisi del capitalismo in crisi A proposito del legame fra Hitler, il nazismo e il capitalismo, lo storico tedesco — in contrasto anzitutto con interpretazioni marxiste — sottolinea non solo che Hitler non tu il pupazzo di capitalisti agrari e generali, ma che — pur senza che ciò significhi minimizzare il supporto sostanziale che gli ambienti ca pitalistici diedero all'ascesa < alla stabilizzazione del potere di Hitler — il nazionalsocialismo non si iscriveva nella necessità del capitalismo (come invece ritennero ad un certo punto i comunisti). Da ciò l'importanza ' delle ricerche specifiche sul ruolo di Hitler e sulla sua biografìa, delle qua): i pionieristici libri di Bullock e di Fcst rimangono le mag giori espressioni. Ma Hildebrand ha torto nel ritenere che tutti i marxisti fossero più o meno coinvolti in una interpretazione economicistica del nazismo. Era stato, infatti, proprio il grande economista marxista Rudolf Hilferding, in un saggio del 1940 che Hildebrand ignora, a sottolineare che con il moderno totalitarismo, di cui il nazismo-era una delle espressioni, subentrava con forza, in luogo del primato della società civile : dell'economia, tipico dell'età iberal-borghcse, il primato dello Stato e della politica. Del pari, quando Hildebrand scrive che esiste una alternativa fra l'interpretazione cconomicistica propria del marxismo e l'interpretazione «politologica» non marxistica che fa uso della categoria del totalitarismo per spiegare non solo la natura del nazismo ma anche dello stalinismo, non coglie ancora una volta nel segno. A parlare di «totalitarismo» non sono stati unicamente gli scienziati politici non marxisti occidentali come a Arendt, Brzezinski e altri, ma prima di loro proprio marxisti antistaliniani come Trockij, Serge, Souvarine, Korsch, I già nominato Hilferding, per fare alcuni nomi. Infine, condivido appieno la polemica che l'autore svolge nei confronti degli studiosi — come McGovern (ma anche Vicrcck), Shirer, Vermcil — i quali avevano visto il nazismo come compimento e «destino» della storia tedesca fin dopo Lutero. Basti pensare che nel 1928 il nazismo era tanto il «destino» della Germania da raccogliere alle elezioni soltanto il 2,6 per cento. II che non vuol dire che il nazismo non avesse sue tenaci radici nella storia tedesca. Ma il grande problema resterà sempre perché quelle radici, ad un certo punto, fra il 19J0 e il 1933, travolsero altre, opposte, radici, che pur esistevano. E fa bene Hildebrand a ricordare che, in elezioni libere, il nazismo non ottenne mai il consenso della maggioranza del popolo tedesco. Massimo L. Salvadori ' Miller in una caricatura di Levine (Copyright N.Y. Rcvlew of Boote. Opera Mundi e per l'Italia .La Stampa.)

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