Tibet, se tornasse il Dalai Lama di Manuel Lucbert

Tibet, se tornasse il Dalai Lama Viaggio a Lhassa 32 anni dopo l'annessione alla Cina e 24 anni dopo la rivolta conclusasi con l'esilio del re-dio Tibet, se tornasse il Dalai Lama I leader della regione autonoma sembrano divisi dopo l'annuncio che il capo spirituale potrebbe visitare il Paese nell'85 Alcuni ostentano una politica della «porta aperta» per lui e per tutti i profughi, prospettandogli anche un ruolo di rilievo nel governo centrale (ma con residenza a Pechino) - Altri esigono che l'esule «riconosca gli errori del passato» e «ammetta di essere cinese» - Solo allora «sarà il benvenuto» - Intanto, dal '79 continuano discreti contatti con inviati dell'ex sovrano NOSTRO SERVIZIO LHASSA — Un'altra alba illumina il cielo grandioso della capitale dell'ex regno del Tibet, annesso nel 1951 dalla Cina comunista. Una massa indistinta, la folla dei pellegrini, brulica prima ancora clic il sole sorga sulle montagne selvagge attorno al Jokliang, 11 monastero nel cuore della città sacra. Commercianti cinesi e nepalesi si confondono con i pastori-guerrieri khampa, gente dal portamento altero che tiene alla cintura il tradizionale pugnale d'argento a lama corta, simbolo del loro leggendario coraggio e del loro ombroso spirito d'indipendenza sopravvissuto nei secoli. Il problema del ritorno del Dalai Lama, esule in India dall'epoca della rivolta del 1959, non 6 certo l'unico problema politico di questo Paese. Ma per questa folla clie.gi ra senza sosta attorno al Jo khang cantilenando preghie re, è anche l'unico problema che conti. Il governo cinese distribuisce ancora con il contagocce ai corrispondenti stranieri i visti d'ingresso per questa lontana provincia, se parata dal territorio della Repubblica popolare da un rigido controllo di frontiera. Ma per quanto breve (meno di una .settimana nel mio caso) un soggiorno sul «tetto del mondo., rivela tutta la drammaticità dei problemi, grazie alla gente che incontro. Losang Pingzuo, superiore dei lama del Jokhang, dice di sperare che «li Dalai Lama torni presto in Tibet». Ha sen tilo dire che l'ex re-dio pensa di venire nel Paese nel 19B5 E' •.estremamente felice» di questa intenzione; a suo pa rere, nella situazione attuale le possibilità di un incontro tra il Dalai Lama e il suo popolo «sono grandi, e grandi sono anche le sperarne». Sa che 6 pssibile sintonizzare la ra dio su programmi che dall'In dia trasmettono le parole del l'uomo che resta il capo della comunità di cui fa parte, da un punto di vista storico come spirituale: ma, aggiunge con uno sguardo malizioso ai fun zionari cinesi che ci stanno intorno, lui non ha radio, troppo occupato». Anche un giovane monaco che incontro nel tempio è al corrente dei progetti di viag¬ gio del Dalai Lama. E chiaramente ne è «felicissimo». Un altro mi prende da parte, e dopo essersi assicurato che non ci siano occhi indiscreti, prende dal saio una medaglia del re-dio deposto, e me la mostra con un gran sorriso. Addirittura, un funzionario comunista tibetano prevede il prossimo ritorno del Dalai Lama, e vede già in lui «12 numerounodel Tibet». Nell'ottica cinese, il problema non è cosi semplice. Dire che la prospettiva di una visita del quattordicesimo successore di Tsong Khapa, che nel XVI secolo fondò la «setta gialla... sia fronte di screzi nell'amministrazione han sarebbe un eufemismo. Nell'aprile '82 Yin Fataang, primo segretario del partito della regione autonoma del Tibet, lanciò un appello al Dalai Lama affinché tornasse «a vivere nel Paese o per una semplice visita»; l'invito fu accompagnato da un'esortazione a dimenticare il passato». Recentemente, un vice primo ministro, Wan II, ricevendo il deputato indiano Swamy, amico della' Cina, ha velatamente ripetuto l'offerta, alludendo addirittura alla 'posizione politica adeguata» che l'ex monarca-religioso dovrebbe assumere per tornare. Ma si direbbe che su questa linea, pur relativamente morbida, i dirigenti locali cinesi non siano unanimi. Durante 11 mio soggiorno a Lhassa ho avuto occasione di sentire due correnti di pensiero», a proposito del Dalai Lama per nulla uguali, se non del tutto contraddittorie. La prima, più conciliante,' mira a voltare pagina sugli scontri di 25 anni fa. • Dimentichiamo il passalo», ripete Yong Pei, direttore del Dipartimento per gli affari etnici della regione autonoma, e con lui il suo primo segretario. La rivolta è stata un male, ma Ita portato un bene» spiega citando Mao, e questo perché ha condotto alla «liberazione» completa del Paese e alla realizzazione di «grandi cambiamenti». A suo parere, «da marxista leninista, dopo una fase di sviluppo la religione avrà una fase di declino. Nessuìio può contrastare questa logica». Ma, aggiunge, «non si parla neppure di ricorrere a provvedimenti amministrativi per risolvere il problema. Questa politica non cambierà per cinque o sei generazioni, forse per alcuni secoli». Quanto ai tibetani in esilio dal '59, il partito e il governo cinesi hanno una linea •■chiara»: «Se questi fratelli e queste sorelle sono dei patrioti, fanno parte della nostra stessa famiglia. Possono venire e andarsene in qualsiasi momento. E durante il soggiorno saranno liberi di andare dove vogliono». Nei confronti del Dalai Lama, in apparenza c'è altrettanta disponibilità: «Se vuole tornare, la porta è aperta. Sarà sempre il benx>enuto. Se ritiene che la situazione non sia ancora matura e preferisce aspettare, non c'é problema». Yong Pei sembra sicurissimo di quanto dice: se l'ex redio tornerà in Tibet «avrà lo stesso statuto clic aveva prima del '59, e unna posizione importante nel governo centrale». Yong Pei sembra dimenticare che fino all'epoca della rivolta il Dalai Lama formalmente rivestiva ancora la funzione di capo del gover-' no tibetano; e vede senza difficoltà l'ex sovrano vice presidente dell'Assemblea nazionale popolare, il che poi non sarebbe un grande onore, dal momento che dal punto di vista politico un simile ruolo porrebbe il capo dei buddisti tibetani sullo stesso piano del suo «secondo», il Panchen Lama. Questa proposta comporta inoltre una buona parte di «trucco..: una responsabilità politica a Pechino impedirebbe automaticamente al Dalai Lama di abitare a Lhassa. Su questo punto, Yong Pei è categorico. Non si parla neppure, invece, della presidenza del governo della regione autonoma: «Dal 1959 sono passati 24 anni, l'edificazione socialista in Tibet lia avuto grandi successi, non sarebbe opportuno». A questo futuro pentito» resterebbe quindi da lare ogni tanto un semplice «giro d'ispezione» nel suo ex Paese, in base alla compiacenza dei dirigenti di Pechino. E, malgrado un atteggiamento nel complesso lavorevole alla Cina, il Panchen Lama, che lu incarcerato nel '64, ha dovuto aspettare 18 anni prima di fare il suo «giro d'ispezione» in Tibet. Ma altri funzionari cinesi a Lhassa hanno una posizione molto meno condiscendente verso lo sconfitto del '59. Secondo Yang Ziqing, vice di- rettore del Dipartimento per gli affari religiosi, è chiaro che il ritorno del Dalai Lama si può configurare soltanto a certe condizioni, la prima delle quali è «che riconosca gli errori del passato», e la seconda è che «ammetta di essere cinese». Di conseguenza, il governo tibetano in esilio dovrebbe «porre fine alle sue attività separatistiche e impegnarsi ad agire in favore dell'unità della patria e del popolo». In altre parole, andare a Canossa. Una volta fatto questo, evidentemente sarebbe «il benvenuto» in qualsiasi momento. E' una posizione che ha una certa logica, bisogna ammetterlo. E' difficil mmaginare le autorità di ul.ino, e ancora meno quelli, di Lhassa. accogliere un uomo che mantiene in funzione all'cs'tero una struttura politica in aperta opposizione all'unione del Tibet con la Repubblica popolare. E certo sarebbe difficile per il Dalai Lama non dare certe garanzie alla Cina per rivedere il suo Paese. I contatti avviati a partire dal '79 fra i circoli tibetani in esilio e i leader cinesi sembrano intanto continuare discretamente. Durante il mio soggiorno a Lhassa rappresentanti della Tibetan Wellfare Association, che ha base a New Delhi, erano nella capitale tibetana. Yang Ziqing smentisce categoricamente che si tratti di una delegazione ufficiale del Dalai Lama, ma il gruppo (19 persone), guidato dal lama Kathok Singchong Rimpoche, era pur sempre ospite del governo della Regione autonoma; il viaggio informativo in Tibet e in Cina durerà quattro mesi. E' questa la quinta missione del genere dal 1979 a oggi; e i controlli ai quali questi «fratelli» sono sottoposti durante il soggiorno contraddice palesemente le belle parole che le autorità sprecano sulla libertà di movimento per tutti gli esiliati che tornino in patria, anche solo in via provvisoria. Mentre parlavo con i membri del seguito del lama, due poliziotti in borghese entrati alle nostre costole nell'albergo dove il gruppo era ospite assistevano in silenzio al colloquio. Manuel Lucbert Copt righi (ite Monde» i- pt-H'ItuliD «l.u Stampali I.liastt. Il Potai», l'aulica residenza del Dalai Lama, domina I» capii «le del Tibet Dal '59 è sialo trasformalo in museo (( irazia Neri)