Calder, un fanciullo contro Michelangelo

Calder, un fanciullo contro Michelangelo Calder, un fanciullo contro Michelangelo Appuntamento di mezza estate al palazzo a Vela di Torino con l'artista che ribaltò l'idea di scultura Le ripercussioni critiche che hanno preceduto e accompagnato la grande mostra di Calder a Torino sono rimaste in un certo senso sfalsate rispetto alla complessiva immagine e significato, ormai storici e storicizzabili — a quasi sessant'anni dall'approdo dellMngénieur hilaire,, di Prévert nella Parigi surrealista e astratto-costrutti vista degli Anni 20 —. Queste ripercussioni si sono ancorate nell'insieme ad una visione, talora entusiasta ma certo limitativa, di tipo lirico-imaginifico, «poetico» e psicologico (11 fascino delle pagine di Prévert e di Sartre): il grande giocoliere che trasforma la meccanica nell'imprevedibile fantasia dei moti aerei; il semplice, spontaneo sognatore di una nuova natura fabbrile, offerta alla fantasia infantile e surreale degli uomini da un uomo-fanciullo, figlio degli Stati Uniti industriali (ancora «giovani» e «selvaggi nella sua infanzia) quanto del mondo magico amerindo. E' indubbio che tutto questo sia uno degli elementi di fondo, costitutivi e caratterizzanti, della fascinosa personalità di Calder — bonario e abile gestore di un suo proprio mito — e della sua dira mata e universale opera, dalla scala minima del giocattolo, del gioiello a quella massima dell'intervento urbano, da Caracas a Grand Rapids a Spoleto. Ma mi sembra altret¬ tanto evidente che la presenza di Calder nella cultura visiva e formale contemporanea, quale si impone a Torino entro e intorno al Palazzo a Vela, richieda altri parametri, altre considerazioni, le stesse che nel 1952 indussero i commissari internazionali della Biennale di Venezia a conferire a Calder 11 Gran Premio di scultura. . E' sufficiente considerare in prospettiva storica e non mitica l'esordio parigino nella seconda meta degli Anni 20, con la creazione del Circo attraverso materiali «poveri» e di «rifiuto» nella più tipica tradizione dadaista-surrealista, da Schwitters a Bellmer all'americano Cornell; e la sua animazione sotto gli occhi di Cocteau e Pascln, Léger e Mirò, Mondrian e Arp, van Doesburg e Pevsner. Lo stato maggiore delle nuove avanguardie, passate attraverso il bagno vitale di Dada, del costruttivismo, del surrealismo ai suoi albori, coglieva, certamente e subito, entrambi gli aspetti di fondo del rivoluzionarlo e ben cosciente spettacolo proposto da quel grosso ingegnere americano, e delle opere ad esso connesse, tridimensionali grafiche: la sua «verginità» fantastica e surreale, ma anche la rivoluzione linguistica segnata da quelle prime proiezioni di tracciati umani e animali con il filo di ferro e la punta della matita, da quei Ritratti che sono vere e proprie «stratigrafie» analitico-pslcologlche. Non a caso, nel decisivo passaggio ai primi «moblles» astratti esposti nel 1931, lo spunto fondamentale è dato dai ritmi puri, bidimensionali e cromatici, di «AbstractionCréation», e innanzitutto da Mondrian; ma non è meno evidente, fin dal principio, 11 rapporto con il fantastico mondo emozionale e subconscio di Mirò e con l'organicità naturale e «primaria» di Arp, nonché 11 parallelismo con coeve sperimentazioni grafi¬ che e tridimensionali di Picasso. La formula esplosiva e integralmente rivoluzionaria di Calder, anche e proprio nella sua immediatezza apparentemente elementare, consisteva nell'incontro e fusione fra la geometria dinamica tridimensionale, ingegneresca, del costruttivismo e il fantastico scandaglio nel profondo dell'uomo — sotto l'apparenza del «gioco» infantile —, che impronta il Carnaval d'Arlequin di Mirò, dipinto a Parigi un anno prima dell'arrivo di Calder. Ciò poneva Calder, come guida e non come innocente giocoliere, nel cuore dell'annichilimento di ogni tradizionale istanza plastica e monumentale della tradizione dell'Occidente, dando un decisivo contributo a quella crisi, per cui Arturo Martini definirà drammaticamente la scultura una «lingua morta»: in questo senso Calder è «altra cosa» da Michelangelo; è anzi l'antl-Michelangclo. Al carattere radicale di questa eversione, sviluppata lungo gli Anni 30 e 40, con i primi «standing mobiles» e «stabiles», certo contribuisce il fondamento, altrettanto antropologico quanto fantastico e magico, nelle culture amerinde, su cui giustamente Insiste Carandente; ma mi sembra anche evidente l'attenzione di Calder alla fantasia spirituale, ludica e cosmica, dell'Estremo Oriente, che è un'altra tipica ricorrenza della cultura contemporanea statunitense. Fra le opere presenti in mostra vi sono le Penne indiane del 1969, ma vi è anche — altrettanto impe gnativo nell'invenzione e nel le dimensioni — VEffetto del giapponese del 1940-41. Che di vera e meditata rivo luzionc si tratti, tale da ribal tare e trasformare l'idea stes sa di scultura, è dimostrato dalla volontà e capacità di Calder, nel secondo dopoguerra, di affrontare l'unica possibile monumentalità contemporanea. Essa è esemplata, nel connubio finale fra creatività fabbrile e cultura industriale, dai colossali «stablles-moblles» e «stabiles», fino al vertice del Teodelapio per Spoleto, risposta da pari a pari all'unico polo alternativo, rappresentato da Moore. Ciò non spegne né irrigidisce la poetica ironica del suo spirito eterodosso. Basta ammirare la rinnovata, inarrivabile fantasia degli «anlmobiles» dopo il 1970, che fanno per l'ultima volta Calder protagonista della creatività post-razionale, neodadaista e «neorealista». Marco Rosei