Calder disse: la politica io la faccio con le mie sculture

io la faccio io la faccio con le mie sculture Le «granges» erano state convertite in moderni stanzoni con grandi lucernari e qui Calder montava le sue sculture gigantesche che poi smontava e spediva Imballate all'estero (a chi gliele aveva commissionate) oppure ospitava gli amici. In un angolo di ogni «grange» c'era un letto, una cucina inossidabile e, dietro un muro, i servizi igienici. Figlio di una pittrice e di uno scultore accademico di una certa reputazione, «Sandy» Calder era nato in Pennsylvania il 22 luglio 1898; sarebbe morto a New York, nel 1976. Gli studi all'istituto tecnologico di Hoboken, N.J., l'iscrizione all'Art Students League, i contatti con artisti americani quali John Sloan che fu uno del suoi maestri, trovarono il loro compimento quando a 28 anni Calder per la prima volta sbarcò a Parigi. Qui cominciò a costruire animaletti articolati in legno e fil di ferro e fu la preistoria delle sue sculture in fil di ferro che costituirono il cosiddetto «circo», un insieme di animali e ballerine che Calder alla fine degli Anni Venti espose a Parigi al «Salon des humoristes ». Da questa esperienza nacquero le sculture alate di dischi e fil di ferro, 1 «moblles», poi seguite dagli «stabiles» (supporti in ferro e «capigliature» di dischi e fil di ferro poggiate sulla cima), i «totem», eccetera. Amico di Cocteau, di Mirò e Léger, questo «grande fabbro dell'arte» come lo chiamò Giuliano Briganti, lasciò la Francia per gli Stati Uniti nel 1933, due anni dopo il matrimonio con Louisa James, pronipote di Henry, lo scrittore. Quando nel dopoguerra, da Roxbury, dove si era stabilito, ritornò in Francia Calder era ormai artista di fama internazionale. La «spirale», commissionatagli dall'Unesco nel 1958, parve coronare l'opera di una vita. A Saché, nella «grange del barone», come egli la chiamava, Calder mi ospitò un fine settimana di maggio, 1967. La cena nell'ex osteria rinascimentale era stata quella sera alquanto burrascosa. Lo scultore era stanco e come sempre gli succedeva quando era stanco, irritabile. Inoltre aveva bevuto parte del pomeriggio e Louisa, la sola che riuscisse a calmarlo quando occorreva, appariva preoccupata. A cena c'era, tra i diversi ospiti e familiari, anche il genero dello scultore. wagon Cltrofin fresca di fabbrica, mi portò all'officina, poi in casa. Voleva, mostrarmi una scultura di Olacometti. « Ciò che faceva mi è sempre piaciuto — disse — e anche lui mi piaceva». Giacomettl era morto l'anno avanti e con Calder si erano conosciuti verso 11 1926, alla cooperativa della « Orande-chaumlère ». «A quell'epoca — disse ora lo scultore, accarezzando con le grosse zampe d'orso che erano le sue mani la minuta stamina di Olacometti — frequentavo anche il musicista Varese. Attraverso Varese incontrai Mondrian, fu una delle grandi esperienze della mia vita. Vedendo i suoi quadri capii cosa fosse l'arte astratta e fu un tremendo shock. Da allora e per due settimane non dipinsi che cose astratte anchlo. Poi tornai alla scultura ma anche questa, adesso, era astratta». E dopo: «/' nome alle mie prime sculture mobili, i "mobiles"non fui io a trovarlo ma Duchamps. Il nome "stabiles" lo inventò invece Jean Arp». A quell'epoca Calder stava dipingendo una serie di guazzi con diversi soli. Spiegò che l'Idea gli era venuta in Guatemala, dove era stato a imparare a tessere amache. «Afl giravo da una parte e c'era la luna, mi giravo dall'altra e c'era il sole, tutti e due nello stesso cielo». Poi, «in Guatemala nessuno mi faceva mai perder tempo, ansi: tutti e tutto ciò che vedevo mi spingevano a lavorare». I «mostri» sulle colline, U pronti a volare e partire, erano stati tutti battezzati da Calder e avevano nomi straordinari -il barone», • treali», «falcone », 'ghigliottina per otto». Disse: •Mi chiedono dove li trovo, le forme e i nomi, poi quando lo dico nessuno mi crede. Li vedo la notte, li sogno: il difficile è poi disegnarli, farli in acciaio». La mattina diventò pomeriggio, il pomeriggio sera. Quando dovevo partire, Calder mi afferrò per un lembo della giacca. «La politica —disse e ripetè la parola due o tre volte—la politica... io la faccio con le mie mani nel laboratorio, la politica «Certo — dissi io — certo» e lo abbracciai. Non gli bastava, ripetè un'altra volta la frase, voleva chiarire la scena del giorno avanti, non voleva lasciare nell'ospite una cattiva impressione di sé. Poi disse, «Afe redskin, sono un pellerossa», portò le mani al maglione rosso che indossava. . . Piero Sanavio SI Inaugura oggi a Torino ano mostra retrospettiva di Alexander Calder che rimarrà aperta (ino al 25 settembre. Corata du Giovanni Carandente e allestita nel Palazzo a Vela, l'esposizione riunisce 469 opere: dipinti, sculture, arazzi, tappeti, gioielli, utensili e litografie. L'iniziativa è della Toro Assicurazioni, nel 150* centenario della sua fondazione, che la presenta insieme con il Comune di Torino. C'è anche un catalogo della Electa, con testi critici e indicazioni bibliografiche. «Tuttollbri» pubblica questo servizio su un incontro con il grande scultore, scomparso nel 1976. ALLA fine degli Anni Sessanta prima di ritornare definitivamente negli Stati Uniti, lo scultore americano Alexander («Sandy») Calder viveva in Francia: in Turenna, a Saché. Abitava in quella che quattro secoli avanti, all'epoca di Francesco I, era stata Insieme osteria - stazione di posta, una struttura a due' piani parzialmente scavata nella roccia. In cucina, la roccia viva costituiva ancora una parete. Sull'altro lato della strada che veniva da Tours, a valle della casa di Calder, c'erano un mulino e una zona d'acqua. Dalle sommità delle colline che chiudevano la vallata grandi forme alate di acciaio dipinto di nero («7 miei mostri» Calder li chiamava) guardavano giù minacciose. Le forme erano le sue ultime sculture di quegli anni. Alcune erano poste nello spiazzo antistante grandi «granges» usate un tempo dai contadini come depositi di fieno e parevano sempre 11 per spiccare il volo. Una litografia di Alexander Calder e, aJtoco,.un'imittag|ne dello scultore va a chiacchierare ai politica, scattò in piedi, spazzò via di un colpo dalla tavola il bicchier di vino, i manifesti, le incisioni, usci. Mezz'ora dopo, una visiera di plàstica calata sugli occhi, era nell'officina e con una grande forbice tagliava pezzetti di rame da un foglio, li piegava con le dita corte e spesse da fabbro, faceva due buchi su ogni pezzettino. Stava costruendo (disse) la «capigliatura» di uno «stabile». « Wow - wow» fece appena mi vide e rise o meglio fece una smorfia. Lasciò le forbici e si mise a pestare con le quattro dita di una mano sul palmo dell'altra. Mi occorse un po' di tempo per capire che mimava il cane a sei zampe dell'Agip e voleva sapere da me, adesso, subito, chi lo avesse disegnato. Confessai la mia ignoranza. Calder alzò le spalle, riprese a tagliare e piegare altri pezzi di rame, alla fi¬ Mentre la conversazione girava attorno a una prossima mostra di guazzi da Maeght a Parigi, 11 genero aveva «forzato» 11 discorso su questioni politiche. Disse tra l'altro che aveva in automobile un fascio di incisioni e voleva che Calder le firmasse; i soldi della vendita dovevano andare a sostenere gli oppositori americani alla guerra in Vietnam. Calder aveva già firmato per conto proprio diversi appelli contro la guerra eaveva anche comperato un'intera pagina del «Times» di New York per esprimere il proprio dissenso, adesso scosse 11 capo. «Afa no, no» insistè il genero e usci, tornando con un fascio di incisioni e manifesti che posò sul tavolo al quale eravamo. Calder spostò un bicchiere di vino e cominciò a firmare; alla decima incisione, però, mentre il genero continua- ne Il cuci tutti insieme con pezzetti di fil di ferro, disse allegro: «Ecco la capigliatura». Venne a svegliarmi alla «grange» la mattina dopo e ripetè con urgenza un paio di volte una stessa frase; ancora, mi occorse un po' di tempo per capirla. Calder aveva una corda vocale spezzata e (se non erro) il nervo di una guancia paralizzato, il che rendeva i suoi discorsi estremamente difficili da decodificare. Ciò che quella mattina decifrai alla fine mi parve una spiegazione abbastan-' za esatta di cos'era successo la sera avanti, una spiegazione, però, non certo una giustificazione. Disse: «71 problema terribile è il tempo, tutti vogliono il mio tempo. E' gii difficile trovarlo per lavorare, invece che parlare di lavorare». Indossava blue jeans e un maglione color rosso, la sua uniforme a Saché, e con l'auto, una station -