La br pentita Libera depone a Padova «I Nocs minacciavano di violentarmi» di Giuliano Marchesini
La br pentita Libera depone a Padova ut Nocs minacciavano di violentarmi» Il processo ai poliziotti che liberarono il generale americano Dozier ; La br pentita Libera depone a Padova ut Nocs minacciavano di violentarmi» Savasta e la Frascella raccontano: «Ci picchiarono, dissero che ci avrebbero uccisi» PADOVA — Altri tre briga Ustlrossi „pentiti» rinforzano rattacco ai poliziotti dei Nu clei operatlvi centrali di sicu rezza chiamatj a rispondere DAL NOSTRO INVIATO di maltrattamenti davanti ai giudici. Sono Emanuela Frascella, Emilia Libera e Antonio Savasta, che componevano il gruppo dei «carcerieri» de, generale americano Do zier raplt0 a verona nel di¬ cembre dell'81. Calci, pugni, tormenti «spe- clalin in^, ane due donne, bruciature provocate con le sigarette. Con le deposizioni di questi brigatisti dissociati dalla lotta armata si completa n quadro cupo delle operazio ni che fecero seguito alla libe razione dell'alto ufficiale americano, La prima a salire sulla pe dana è Emanuela Frascella, condannata a 4 anni e mezzo in appello a Venezia per il se- questro di Dozier. Descrive l'irruzione degli uomini dei Nocs nell'appartamento di via Pindemonte a Padova, dove le Br tenevano prigioniero il generale. « Ci misero per terra sul pianerottolo, a faccia in giù, e ci presero a calci, ai fianchi, alle reni, all'osso sacro. Mi bendarono e mi condussero nel soggiorno: volevano sapere i nomi di battaglia dei compagni. Non risposi. Mi alzarono la maglia e menarono, mi strizzarono i capezzoli». Emanuela Frascella dice che rimase un paio d'ore sul pianerottolo della casa di via Pindemonte. «Poi ci portarono nella caserma». «Dicevano che mi avrebbero ammazzata, "che nessuno 'sapeva della no stra segregagione e ioro p0te vano fare qualsiasi cosa, che il nostro compagno Giovanni ciucci era morto, che mio padre si era sentit0 male». Poi un altro, brutale «trattamen to». «Mi spogliarono, mi tolse to anche le mutande, mi strapparono i peli del pube, mi strizzarono i capezzoli, mi misero su un tavolo e minac ciarono di violentarmi con un bastone Quali furono, le domanda il presidente Aliprandi, i motivi che la indussero a dissociarsi dalla lotta armata? «/ mal trattamenti hanno inciso su a problemi che già c'erano. In- somma, non sono stati defero minanti: possono aver accele- rato la nostra scelta». Tocca quindi a Emilia Libera, alla quale i giudici di secondo grado inflissero 7 anni per il rapimento del generale americano. Anche lei ricostruisce l'irruzione del Nocs nel covo di via Pindemonte. Sul pianerottolo, calci alla schiena, alle mani, al sedere; ne ricevetti uno anche alla bocca. A tratti, erano accompagnati da insulti. A me dissero: puttana». Nella seconda parte del racconto di Emilia Libera, la scena è quella del «Secondo Celere» di Padova. «Fui messa in una stanza, in ginocchio contro il muro. Uno ripeteva die mi conveniva parlare. Sentivo la Frascella che urlava, e quello là mi diceva die le stavano facendo delle cose con delle tenaglie. Mi dissero anche die Ciucci era stato ammassato, io ci credetti, perché sul pianerottolo della casa di via Pindemonte avevo visto che Giovanni aveva un buco alla nuca, pensavo che gli avessero sparato». E questa è l'ultima descrizione di Emilia Libera: «Presero a darmi schiaffi e calci. Passarono ad altro: fui distesa su di un tavolo, dissero che mi avrebbero violentata con un bastone. Dopo un po'mi levarono dal tavolo e mi presero a calci, sui genitali, mi strizzarono i capezzoli. E sentivo le grida degli altri». A proposito della sua decisione di dissociarsi dalla lotta armata, Emilia Libera precisa che c'è stata una maturazione di mesi. «Il fenomeno è mollo più vasto dei maltrattamenti. Ma ho fatto andie questa scelta». Si mette infine davanti ai giudici Antonio Savasta, condannato in appello a 9 anni per il «caso Dozier». Poco dopo la liberazione del generale, i poliziotti dei Nocs chiedevano ai brigatisti come si chiamavano. «Subito non risposi racconta Savasta —. Mi sferrarono calci e pugni. Non ricordo quanto durò. Uno che parlava in perfetto italiano, con il tono di chi comandava, invitava gli agenti a non infierire. Sentii Ciucci che rantolava. Emilia chiese che lo portassero via, che venisse medicato. Altre botte ad Emilia. E frasi ingiuriose, rivolte a tutte e due le ragazze. Dissero che mi avrebbero ammazzato» Poi la rievocazione dei momenti in cui i brigatisti, ben dati, venivano condotti nella caserma del «Secondo Cele re». «Dentro la macchina — dice Savasta — uno mi avverti: se parli ti portiamo da una parte, se non parli ti mettiamo da un'altra. Risposi che non intendevo dire niente: altro colpoin testa». In caserma, Savasta fu fatto sedere. <tQui i ricordi sono un po' confusi: cominciarono a fare domande specifiche: una sulle armi. Mi colpirono ancora, con le mani. E ci fu il gioco del clic con la pistola. Prima, mi fecero sentire qualcosa dicendo die io non avrei avuto difficoltà a riconoscerla, dato che era un silenziatore. Ripetevano di aver avuto carta bianca, die potevano fare quel die volevano. Era una specie di ritornello sui sequestrati. Poi quel giochetto del clic con la pistola puntata ad una tempia». Anche ad Antonio Savasta il presidente domanda per quali motivi decise di collaborare con la giustizia, èli fatto di collaborare — risponde il brigatista — è prendere coscienza del perché uno ha ceduto, delle contraddizioni. Diventa una scelta. Ha ragione chi ancora milita nelle Br e di ce die chi cede ha contraddizioni irrisolte tra collettivo e indMduo». Savasta conclude: «E' chiaro che il mio parlare era una risposta diretta alle pressioni che mi venivano fatte. Ma il collaborare un'altra storia. Oggi sono in molti a dire die un'esperienza come quella delle Brigate rosse è finita». Giuliano Marchesini
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