Sofocle fa soffrire Spoleto

Sofocle fa soffrire Spoleto LE «TRACHINIE» CON LA REGIA PI CASTRI, PROTAGONISTI LA MAHNONI E SCHIMNZI Sofocle fa soffrire Spoleto Insolito allestimento tra pianerottoli e sottoscala - Tutto sussurrato - Tra gli applausi anche vigorosi fischi dal nostro inviato SPOLETO — 1} pianerottolo e 11 sussurro sono le due componenti fondamentali della non proprio tradizionale messinscena delle Trachtnie di Sofocle da parte del regista Massimo Castri, prodotta dall'Ater e presentata l'altra sera al Teatro Nuovo come terzo spettacolo del cartellone di prosa spole tino. Di pianerottoli, sottoscala, anticamere è, infatti, gremito questo insolito allestimento della tragedia della solitudine di Dejanira, sposa all'errabondo Ercole e da lui, reduce, tradita per la bella e muta Jole, preda di guerra. Sono, codesti pianerottoli, che una scenografia altamente multipla e componibile di Maurizio Baiò ripropone di continuo, per sedici volte consecutive, i bui luoghi della coscienza inconfessata, i tenebrosi anditi della memoria, che s'ostina, suo malgrado, a ricordare le proprie lacerazioni e sconfitte. S'aggira, per codesti anfratti, Dejanira (Paola Mannoni) in abiti a lutto «entre deux guerres», e dice la propria delusione cocente di consue mollettiere, promette al sorte abbandonata; vi sbuca il nunzio (Roberto Vezzosi), in «redingote» da. domestico absburglco, a sussurrare, pettegolo, che Ercole sta per tor nare; mellifluo vi si insinua l'araldo Lica (Mauro Avogadro), con tubino e marsina alla Oliver Goldsmith, e confessa che Ercole, schiavo di Eros, ama un'altra; stremato vi approda, in una polverosa palandrana alla Garibaldi, Ercole stesso (Tino Schirlnzi), già invischiato nella tunica del centauro Nesso, a balbettare la sua impotenza di semi- dio, zimbello degli dei veri; e, come un bimbo alla Ettore Malot, 11 figlio Ilio (Carla Chiarelli), Imbardato nelle padre che sposerà lui la Jole, la povera mutina, garantendo così la continuazione della specie. Prima e ultima di tutti, ha aperto e chiude questa angosciosa e un poco losca storia adultero-vedovile il coro-nutrice (Anita Laurenzi) che ride e piange e, soprattutto, sussurra la collettiva disperazione. Questo del sussurro è, come ho già detto, l'altro asse portante del demistificatorio edificio costruito da Castri se non proprio ai danni di Sofocle, certo alle sue spalle: e se l'idea-base del pianerottolo è un po' monotona (dopo una ventina di minuti ti verrebbe voglia di veder spalancarsi in quelle tetre mura di caseggiato umbertino un qualche flnestrone o un balconcino alla Eduardo), quella del sussurro è molto, molto Imbarazzante. Lasciamo stare le signore tutte perle e brillanti, che, non avendo mal letto Sofocle, chiedevano a gran voce agli attori un po' di voce in piti, urlando a squarciagola: «Fateci capire, fateci capire!*. Noi Sofocle l'avevamo, per l'occasione, riletto: ma avremmo voluto lo stesso percepirle le parole sofoclee, come sussurrate, d'accordo, perché avevamo Inteso che quel registro fonico era per Castri un «buttar via» il pathos, uno smorzare il tragico, un sottlndendere 11 fatale: e invece no, neanche sussurrate ci arrivarono. Vi lascio immaginare come andò a finire: tra applausi e fischi, ma i secondi più vigorosi e risentiti del primi: e fuori, sotto 11 peristilio del bel teatro neoclassico, altissimi sdegni, questi veramente sofoclei. Guido Davico Bonino Jfl

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