Don Giovanni, uccidi Trockij

Don Giovanni, uccidi Trockij Grande successo al Maggio Fiorentino di «Rosales», primo dramma di Luzi Don Giovanni, uccidi Trockij Il grande seduttore alle prese con un delitto politico nel 1940 - L'interpretazione di Albertazzie della Aldini DAL NOSTRO INVIATO SPECIALE FIRENZE — Un'ovazione, a pubblico in piedi, nel Teatro della Pergola gremito, ha salutato autore, regista, interpreti al termine della prima di Rosales di Mario Luzi, allestito dal Teatro di Genova in collaborazione col Maggio Musicale Fiorentino. In tanto applauso s'avvertiva, soprattutto, l'ammirazione per il primo persuasivo approccio del nostro massimo poeta, il sessantanovenne fiorentino Luzi, al teatro con tanta perseveranza disertato dagli scrittori italiani. Luzi, in questo ampio, corale dramma in due tempi, ha, in effetti, dimostrato una consapevolezza matura dei problemi di costruzione drammaturgica: e, soprattutto, ha affrontato una tematica di largo e profondo respiro, propriamente esistenziale. Il Rosales del titolo è don Juan Rosales, un Grande di Spagna sessantenne, che già fu, in passato, un tragico e fatuo seduttore, moderna prospezione del mito di Don Giovanni. Richiamato nell'estate del 1940 a Ciudad de Mexico (dove vive in esilio uno dei protagonisti-vittime della rivoluzione bolscevica, quel Markoff in cui non è difficile riconoscere Trolìdi), Rosales si vede proporre da una delle sue antiche vittime, Ester (madre a sua volta della ventenne Anna sedotta a prezzo della sua follia, ma forse in¬ consapevolmente amata), di uccidere il leader politico. Colpito dalla folgore di quell'insano progetto, Rosales si ribella, pur intuendo che ciò gli costerà comunque la vita: ansi, intravedendo per la prima volta in codesto tardivo sacrificio di sé, l'inizio di una profonda metamorfosi, di una rigenerazione spirituale, di cui sarà testimone la figlia giovinetta della morta Anna, la pura, fervida Alba. Markoff, che finirà ucciso da un finto Rosales, non accetta, invece, sino all'ultimo di mutar¬ si: è il politico calato nelle ragioni relative della storia, non l'artista solitario e imprevedibile, come Rosales, che sa d'un colpo ricrearsi e approdare alla catarsi morale. Di questo dramma alto e severo, che s'inarca in stupendi monologhi e s'allarga poi in accesi scontri frontali, il regista Orazio Costa ha voluto marcare, soprattutto, l'aspetto oratoriale, badando a che le singole sequenze.si distendessero per ampie, solenni volute, evitando di proposito di cedere a qualunque tentazione di suspense o puramente romanzesca. Scelta rigorosa, com'è nelle corde di questo coltissimo uomo di teatro, ma che, nella prima parte soprattutto, infonde allo spettacolo una lentezza eccessiva. Né valgono a riscattarla la scenografia vistosamente simbolica di Angelo Canevari, un lungo serpente piumato di legno a incastri, che servi di scena di continuo compongono e ricompongono a disegnare i numerosi spazi dell'azione, e la partitura musicale di Guido Turchi, troppo palesemen- te evocativa dell'angoscia e della speranza. Dove invece il superiore magistero di Costa rifulge, dove spicca la sua finezza è nella restituzione dei-valori, semantici e timbrici, della parola poetica e nella concertazione (usiamo di proposito questa metafora) degU attori. Giorgio Albertazzi come Rosales è magnifico per purezza di scansioni, varietà di toni, ricerca calibratissima di effetti: ma, ciò che più conta, ha radicalmente fatto suo il personaggio, incrostandolo prima sotto la patina di un mondano cinismo, poi, lentamente, conducendolo inorridito alla scoperta dell'altrui insensatezza, infine scavando nella sua disperazione colla sonda di una stupefatta speranza, sino all'epifania della Certezza, nell'incontro con la «lodo-letta» Alba. Edmondo Aldini è una Ester imperiosa e ad un tempo indifesa, sa scavare con grafitante autoironia nel vano impegno detta militante caparbia e subito dopo commuoverci dinanzi alla sua solitudine fonda. Betta Pozzi conferisce ad Alba una levità ed una grazia da angelo visitatore, da cui poi sprigiona un'inattesa veemenza. Ma non è solo su questo terzetto che lo spettacolo trova il suo punto-forza: perché Costa ha lavorato, strenuamente, a evidenziare in ciascun interprete i segni-simbolo dell'esigente dettato poetico di Luzi. Cosi Paoni è -un Markoff che si denuda, nella sua fragile vanità, scetticamente sillogizzando sulla sordità dei compagni; Mario Feliciani è il vegliardo Vicente Diaz, un coreuta che contempla, impotente, lo sgretolarsi della collettività; e Camillo Milli un Francisco-Sganarello tra devozione e stanchezza. Dal loro impegno ad affrontare un verso come quello di Luzi ricco di sostanza concettuale, è dipeso gran parte del successo di cui s'è detto. Guido Da vico Bonino

Luoghi citati: Alba, Firenze, Spagna