Che onesta voluttà fingere occultarsi, non dire tutto

Dal Seicento l'elogio della dissimulazione Dal Seicento l'elogio della dissimulazione Che onesta voluttà fingere li di goccultarsi, non dire tutto SECOLO gremito di miraggi e di specchi, e che la metamorfosi turba, il Seicento s'interrogò a lungo sulle implicazioni morali connesse al gioco dell'essere e dell'apparire. La recita fu peccato, si scomunicarono i comici, si deplorò Tartufo. E tuttavia il travestimento, degradante sulla scena, non cessò d'apparire meritorio nel commercio quotidiano («il gran teatro del mondo»), non solo per il senso di festa carnevalesca e per le immunità che comporta, ma soprattutto, inconfessataménte, per la delicata perversità che sembra accompagnarne l'uso. Sicché non sorprende, nel 1641, ad opera di un oscuro cancelliere meridionale, la lode della «dissimulazione onesta», in un libriccino prezioso, che oggi, dopo le lontane, e per vari versi imperfette, edizioni del Croce e del Bellona, rivede la luce a cura di un intrepido filologo, Salvatore Nigro, e con la congeniale, direi obbligatoria, benedizione di Giorgio Manganelli (Torquato Accetto: Della dissimulazione onesta. Costa e Nolan, pagine 102, lire 12.000). Vi si recensisce, dalla foglia dell'Eden in poi, la naturale propensione dell'uomo a coprirsi. Non già in odio al Vero, ch'è valore metafisico e coincide con i «chiari abissi» di Dio; bensì a tutela di un nostro tiepido, furtivo grembo d'intimità, dove l'insulto della luce recherebbe sconcerto e dolore. Il «viver cauto», sostiene l'Accetto, non è fuga ma ascesi; la cecità volontaria nasce da intelligenza: «è di grande intelligenza che si dia a vedere di non vedere quando più si vede»; il dissimulare è virtù e virtuosismo insieme: «è una professione, della quale non si può far professione se non nella scola del proprio pensièro... Degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia alcuna». E qui una modesta vertigine coglie il lettore, cosi nuova è l'idea d'una storia della finzione, nella quale solo le comparse figurerebbero, mentre ne sarebbero esclusi gli attori e falsari sommi, in grazia della loro stessa impeccabile invisibilità. Appunto a una tale condizione di evanescenza e ; di latitanza aspira, secondo il nostro autore, non solamente chi vive, ma chi scrive: essendo la scrittura null'altro che esercizio di omissione e amputazione, chirurgia resecatricc, arte di vulnerare la pagina, per volontà e voluttà di dissanguarla, di avvicinarla allo scarnificato approdo del niente, allo zero sublime dell'assenza. E' un discorso che ha risonanze odiernissime e nel quale par riconosce! si e consumarsi l'innumerevole metafora di frode che chiamiamo letteratura. Né questa è la sola mozione del libro che ci riguardi da vici. no. Accanto alle due propoi ste: del riserbo come na- — scondigho e sentinella del vivere; e del parlar laconico come segnaletica di congiurati, programmaticamente intesa a una finale cancellazione del testo; accanto a queste due diplomazie, abbastanza correnti ai tempi suoi, l'Accetto ne scopre, con sorprendente anticipo, una terza: queila vacanza provvidenziale, quella analgesica malafede, ch'è l'illusione. Illudersi, barare sul proprio conto «è un inganno che ha dell'onesto; poiché è una moderata oblivione che serve di riposo agl'infelici; e, benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non se ne può far di meno per respirare in questo modo; e sarà come un sonno dei pensieri stanchi...». Così nel bellissimo capitoletto, intitolato al «dissimular con se stessi», che ha già quasi i sapori e le andature di un'operetta morale. Ma è in tutto il trattato che si sviluppa, con l'agio di un piano militare giocato in laboratorio e sottratto agli accidenti del caso (sole di Austerlitz o pioggia di Waterloo), la strategia dell'occultamento. E' una macchina di cui l'Accetto si fa pedagogo e garante, e le cui manovre sperimenta in persona prima, ondeggiando, scomparendo, riapparendo. Senza far nulla per non farsi sorprendere in flagranza di reticenza, nell'atto stesso in cui ne discorre. Vero è che, trovandosi obbligato a fare i conti con parole vischiose e sentimenti interdetti, stretto fra Tacito e Tiberio, Machiavelli e il Sant'Uffizio, egli non può che aprirsi la strada a furia di coltellate silenziose e veloci. La sua mossa del cavallo. Illustrazione di Cesare Ripa (da «Iconologia», Padova, 1630) degli umori, il pudore contro le vergogne della gogna, il silenzio contro i soprusi della parola, non è capace di dimenticare il «cadavere» occulto che si cela sotto la maschera della giovinezza e della beltà. Il suo eroe «cauto», tanto più ombroso dell'ircocervo golpe-lione, tanto più discreto del «savio» guicciardiniano, s'affaccia sulle soglie dell'età moderna in figura di dolorosa e dolosa ambiguità. E fra le gesticolazioni e i piagnistei che riempiono le piazze, esibisce la siccità delle palpebre, la sfebbrata inerzia delle mani e degli sguardi. Opponendo alle insurrezioni della mente spontanea, alle sue espanse e spesso stupite felicità, lo. stoico risparmio, il calcolato eroismo del segreto. Gesualdo Buf alino zoppa ma fulminea, consisterà dunque nell'insinuare fra simulazione e dissimulazione («si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è») un cuneo ingegnoso, che gli consenta di condannare la prima come «nebbia» e di assolvere la seconda come «velo» di prudenza efficace. Non senza significare «per cenni» al lettore che, se potesse, volentieri tesserebbe l'elogio d'entrambe. Un elogio che gli brucia le labbra; ma che non gli chiederemo di pronunziare. Poiché l'Accetto non è tanto un moralista quanto il commediante tragico del proprio moraleggiare. Uno del quale s'indovinano i bivi interiori, le esitazioni, i curvi maneggi e viaggi attorno alla propria desolazione; uno che, mentre predica il dominio di sé contro le rivolte

Persone citate: Cesare Ripa, Giorgio Manganelli, Machiavelli, Salvatore Nigro, Tacito, Torquato Accetto

Luoghi citati: Padova