L'Edipo di Mauri ha un complesso cercare la verità a tutti i costi

L'Edipo di Marni ha un complesso cercare la verità a tutti i costi Al Carignano l'intenso e limpido spettacolo da Sofocle L'Edipo di Marni ha un complesso cercare la verità a tutti i costi n n l TORINO — Sensibile e schivo, ritroso e colto, Glauco Mauri, interprete da situare nel ristretto novero dei massimi dell'attuale scena di prosa, ha lavorato all'Edipo di Sofocle, cioè alla fusione in un solo allestimento dell'Edipo re e dell'Edipo a Colono, con lunga, amorosa dedizione, si è affiancato nel lavoro di traduzione un grecista dalla limpidezza stilistica di Dario Del Corno, si è valso di uno scenografo del rigore geometrico di Pier Luigi Pizzi: lo spettacolo, approdato infine al Carignano (felicemente riaperto) dopo una tournée in tutta Italia avviatasi nel novembre scorso ad Urbino, è tra i pochi veramente intensi e profondamente toccanti dell'intera stagione. Mauri ha visto, essenzialmente, nell'Edipo del primitivo e terribile mito greco l'eroe della verità ad ogni costo, a prezzo di sofferenze mostruose, di dolori indicibili: e ha ravvisato nel dittico tragico di cui è protagonista un vero e proprio viaggio dalle plaghe insondabili del mistero, in cui s'annida, nel suo ermetico silenzio, l'arbitro del Dio, sino alle soglie, ma al limitare appena, della coscienza dell'individuo, che, con una caparbietà inorale ed un orgoglio intellettuale tutto laico e moderno, vuole sapere perché gli è stato fatto commettere ciò che egli non ha, a suo tempo, voluto né per lungo tempo saputo. Non siamo alle prese con l'Edipo degli antropologi, al varco tra società matriarcale patriarcale (e ciò spiegherebbe, storicamente, il tabù dell'incesto), né con l'Edipo degli psicanalisti, quello che Freud, giovane patologo viennese, scopri turbato in quella rabbrividente battuta di Giocasta f.Molti uomini hanno giaciuto con la madre nei loro sogni»;, ma un ulisside della libertà e dell'innocenza, vietatagli e inquinatagli di continuo da una Moira crudele, da un immanente Destino punitivo. Eccolo, Edipo chiuso nell'alta scatola grigia della sua reggia a Tebe, separato da una scalinata-pedana dal magmatico ondeggiare, sotto grigi pepli, del suoi sudditi, ma bloccato, anche, alle spalle da un alto ferreo portale, che è come la ben munita difesa dell'enigma. Ed eccolo, poi, nel più largo e rasserenante sacro recinto delle Eumenidi, a Colono dolce di narcisi e d'ulivi, cieco e straniero tra ospiti incerti e familiari impietositi, che ancora lo insidiano, sino al tanto atteso cammino verso la Luce, la luce del mistero che stavolta, benigno, lo inghiotte. Le assi dell'azione scenica, il movimento stesso dei compagni convergono tutti su lui: lui è infatti l'impietoso indagatore e punitore di se stesso, la vittima e il carnefice, il cri¬ minale e il martire in un autodafé senza requie. Quasi a dargli sollievo, per brevi tratti, e contemplare, con lui e con noi, il suo stesso dramma, gli attori compaiono in abiti odierni, leggono i bellissimi stasimi sofoclei, a vista, dal copione. i Mentre scorrono quegli attimi brevi, e udiamo, ad esempio, l'elogio stupendo di Colono dai bei cavalli. Glauco Mauri pare riposare da una concentrazione espressiva inesausta, che gli detta l'interpretazione più alta, a mio avviso, della sua carriera per la varietà dei registri e la loro resa sapiente: dal furore altero, indomito, dell'inchiesta prima, allo smarrimento graduale ma ancora non pago, al nero turbamento, all'angoscia secca, come una piaga mortale, della scoperta: e poi, vecchio e cieco, ridotto a zimbello di logori giochi di potere, additato al ribrezzo dei simili, ma ricco di un suo patrimonio fondo di dolore, con la voce che ormai si stempera nei toni di una sacrificale limpidezza. Stavolta, a fargli da degno contorno, più e meglio che in passati spettacoli, ha tre attori di tutto rispetto: Veccellenle Graziano Giusti che è un Tiresia di inoppugnabile saldezza, nel suo amaro profetismo, quindi un pastore tra stupore e stordimento, e infine un Creonte dalla viscida astuzia; la sempre fervida Leda Negroni, tenera, devota Antigone, ma con più smalto, nella sua atterrita prescienza, una protettiva Giocasta; il sorprendente Roberto Sturno, che sfodera una disperazione di cristallina incrinatura nel colpevole e tardi pentito Polinice. Ma anche gli altri, il Manca, il Tidona, la Cioffi, il Tàusani sono ben compresi del ruolo; nitidi di voce e sobrii di gesto. Scarso pubblico alla prima, sul finire ancora delle vacanze, ma fervido di applausi. Guido Davico Bonino

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