Avventurosi italiani di Praga

Avventurosi italiani di Praga IN CECOSLOVACCHIA, SULLA STRADA DEI VECCHI EMIGRANTI Avventurosi italiani di Praga Giunsero in molti dopo il 1355, quando Carlo FV ne fece la capitale del Sacro Romano Impero - Arrivarono poeti come Petrarca, umanisti come Piccolomini e architetti, artigiani, orafi, medici - Per secoli la Congregazione italiana curò migliaia di appestati e fanciulli abbandonati ■ Anche dopo l'ultima guerra nostri operai vennero qui a cercare lavoro - Cosa raccontano quelli che sono rimasti PRAGA — La città, die giustamente viene considerata una delle piU belle del mondo, oggi ci appare come Venezia: una splendida dama die si sfa nella sua decadenza e nella sua già luminosa vita. Attorno a lei crescono nuovi quartieri con i condomini a schiera, gli spasi verdi e una metropolitana veloce collega questi al centro storico. Ma da anni chiese e campanili sono ingabbiati dai tralicci per i restauri e l'affascinante città mostra più che non altre i segni del tempo che inesorabile intacca l grandiosi palassi barocchi, le stupende torri gotiche, le pavimentasioni geometriclie delle strade, i secolari alberi dei giardini; e l'aria satura di vapori solforosi del carbone si posa sui monumenti annerendo e corrodendo i marmi come le gole e i polmoni del cittadini. Un tempo non era solo geograficamente il centro d'Europa e mercanti e nobili, artisti e letterati fino dal primo Medioevo vi convenivano lungo la preistorica via dell'ambra che collegava il Mediterraneo al Baltico, o anclie dall'altra via die dalle steppe asiatiche arrivava in Europa. All'incrocio di queste strade giunsero anche molti italiani, specialmente dopo che, nel 1355, Carlo IV fece di Praga la capitale del Sacro Romano Impero; e non arrivarono solamente poeti come Petrarca o umanisti come Enea Silvio Piccolomini, ma architetti, capimastri, muratori, artigiani, orafi, medici, artisti che lavoravano insieme con i boemi e con i tedeschi per rendere grande questa città. Ancora oggi, al di là dell'incomparabile Ponte Carlo die scavalca la Moldava e unisce Hradcny a Stare Mesto, c'è una strada di Mala Strana che si chiama Vlasskà: Italia, era un quartiere con la sua chiesa, il suo ospedale, le sue botteghe. Un ospedale Attorno al 1550 i numerosi italiani che risiedevano a Praga fondarono una Congregasene a scopo umanitario; nel 1575 venne fondato un oratorio presso il Collegio Clementina della Stare Mesto e nel 1602 la Congregasene degli Italiani acquistò la casa dell'architetto Domenico Bossi per trasformarla in ospedale per gli indigenti che venivano raccolti e curati sema distinzione di nasionalità o di fede, «e si cercava sempre di conquistare gli eretici con le opere di pietà alla fede di Cristo». Tra il 1611 e il 1613 con il lavoro prestato gratuitamente dagli architetti, muratori e artigiani della colonia italiana, l'ospedale veniva rifatto a nuovo e i danni cagionati nel 1632 e nel 1648 da Sassoni e Svedesi nel corso della Guer¬ ra dei Trent'anni venivano riparati con il contributo volontario dei soci; tra questi fu notevole l'offerta di un ignoto mercante milanese che mine a disposizione cinquecento zecchini d'oro. Con l vari lasdti immobiliari fatti dagli italiani che vivevano in Boemia e Moravia, l'istituzione cresceva di fama e di qualità e l'assistenza venne allargata ai trovatelli, agli orfani, ai neonati poveri e alle vedove. La massima attività della Congregasione degli Italiani si ebbe verso la metà del Settecento; nel 1776, per decreto imperiale di Maria Teresa d'Austria, all'ospedale fu unito un ospizio per bambini abbandonati e per fare fronte alle nuove spese di ampliamento e di gestione venne concesso il benefido di tutti i prati esistenti dentro le mura di Praga, dove pure venivano coltivati quattromila gelsi adulti e ventunmila piante giovani. Dall'Italia vennero chiamati esperti sericoltori e venne così anche avviato un notevole opifido per la lavorazione della seta. Oltre alle migliaia e migliaia di ammalati (grande e generosa fu l'opera prestata durante le pestilenze) questa Congregazione Italiana ebbe cura di oltre diciottomila fandulli abbandonati. Ma nel 1789, per ordine dell'imperatore Giuseppe II, l'ospedale italiano, l'ospizio e tutti i be- ni vennero incamerati dallo Stato. Nel 1802, però, l'Assemblea degli Italiani di Praga decise di erigere un nuovo orfano tro fio a proprie spese. Ragazsi di ogni nazionalità venivano raccolti e mantenuti sino all'età di quattordici anni e avviati al lavoro nelle botteghe degli artigiani. Nel 1810 la Chiesa degli Italiani, che era annessa al vecchio ospedale, venne dichiarata di proprietà della «nazione italiana» e tale rimase fino al 1915 quando per la guerra contro l'Austria-Ungheria passò sotto l'amministrazione del canonid della cattedrale. Nel 1919 chiesa e orfanotrofio ritornarono all'Italia e nel 1923 la secolare Congregazione sì fuse con la Società Italiana di Beneficenza; nel 1941, dopo l'occupazione nazista della Boemia e Moravia, la Società Italiana venne sdolta, l'orfanotrofio soppresso e i fabbricati di Vlasskà destinati a sede della Casa d'Italia. Ma le vicende di questo angolo italiano di Praga non erano finite perché nella primavera del 1945 l'antico ospedale divenne luogo di raccolta e di sosta per migliaia di ex internati militari e deportati che dopo l'8 settembre 1943 erano stati rinchiusi nel Lager o nei campi di lavoro nelle regioni dell'Europa Orientale: qui venivano raccolti dalla Croce Rossa, rifodllati, curati e avviati verso la patria. Oggi è diventato la sede dell'Istituto Italiano di Cultura che con pochi fondi, trentanove milioni, provvede a tenere viva una biblioteca, dare concerti, fare conferenze, scuola di lingua, proporre film e mostre: una luce piccola ma preziosa non solo per gli italiani che ancora vivono nella città, die non sono molti, ma anche per tutti quelli che amano la nostra Italia con la sua arte e la sua storia. Ricordando i miei conterrand die nei secoli avevano preso là via del Nord per venire quassù a lavorare o a vendere le stampe remondiniane, ho voluto sfogliare l'elenco telefonico per leggere i vecchi cognomi: ne ho trovati parecchi, magari variati negli accenti o nella finale, e ho letto anche quattro o dnque nomi dei discendenti di un mio compaesano che nel 1860 (allora noi veneti, come i boemi, eravamo dentro gli stessi confini) era nel castello di Praga quale uffidale addetto alle cantine della imperiale e regia Corte. Un tempo erano molti quelli che qui venivano a cercare lavoro; la Boemia e la Moravia erano terre ricche e industrializzate, i nostri emigranti trovavano ospitalità' ed erano ben accetti da tutti; di tante migliaia ne sono ora rimasti pochi, forse dnquecento hanno conservato la nazionalità e l'altro giorno che nevicava quasi nero sono andato con l'addetto culturale Italiano, professor Andreis, fino a Kladno per incontrarne alcuni e sentire le loro storie. Salvatore Numerato era tornitore al silurifido di Pozzuoli e nel 1946, come tanti altri, si trovò disoccupato. Insieme con sessanta napoletani e alcune centinaia di altre regioni in treno da Milano giunsero a Most, centro di grandi industrie chimiche, dove, per il forzato allontanamento dei tedeschi, avevano assicurato lavoro a tutti. Trovarono alloggio nelle baracche di un ex Lager e un operaio marchigiano si vide assegnata la cuccetta cheaveva precedentemente occupato nd venti mesi di prigioniero: non ce la fece a resistere ai ricordi e fu il primo a ritornare acasa. Con «Tosca» In queste baracche restarono un mese, poi vennero qui a Kladno nelle aedaierie e la paga era discreta; fecero un contratto per tre anni e poterono mandare a casa un po' di soldi. Nel 1949 non fu più possibile inviare i risparmi in iItalia* allora molti emigrarono nuovamente in Belgio e in Germania, altri ritornarono a casa, altri ancora si accasarono con ragazze cecoslovacche; come Salvatore che ora è nonno, ha un figlio ingegnere e una figlia maestra. La sua casa dove ci ospita non è vasta ma decorosa, e, più che le pizze veraci che la signora Numerato ci ha preparato mi attirano i libri che sono dentro una credenza vetri: li ha comperati Salvatore nd negozi degli antiquari di Praga e accanto a Danf te, Leopardi, Machiavelli ci sono libri di storia e di arte e romanzi popolari, in italiano naturalmente. Mentre siamo in attesa di un amico ascoltiamo da un disco cecoslovacco le note della Tosca e la voce della Callas. Giovanni Ravera lavorava all'Arsenale di La Spezia come aggiustatore meccanico; per i suoi ideali sodalisti nel 1947 venne a Praga per ti Fe- > N stivai della Gioventù e con altri trenta italiani decise di restare a lavorare da manovale lungo le linee ferroviarie. (E' un lavoro che conosco bene perché anch'io l'ho fatto da prigioniero). Dopo un anno venne a Kladno, nelle o/ficine, si trovò una compagna e si sposò. Ora è pensionato e siccome in Italia ha pure la pensione minima dell'Inps, ogni anno viene a farsi le vacanze alle Cinque Terre. Cesare Montanari è, invece, da Reggio Emilia. Nel 1947 era emigrato in Belgio come tornitore, nel 1949 venne in Cecoslovacchia come turista e considerato che in questo Paese gli emigranti non erano «stranieri*, dedse di rimanere. Si è sposato, ha un figlio che sta costruendosi la casa e gli dà una mano; ogni tanto lavora anche alla manutenzione del macchinari della suafabbrica. Questi amid e altri si ritrovano ogni tanto nelle case or dell'uno or dell'altro per giocare a scopa e tresette, organizzano scampagnate, vanno a pescare. Tutti sono concordi nel dire che i cechi sono sinceri e degni di stima e che loro sono benvoluti e non considerati degli intrusi. Le paghe, rapportate al potere d'acquisto, sono buone; un operaio guadagna più di un impiegato, un minatore più di un operalo; gli affitti sono un decimo della paga; l'assistenza sanitaria è buona. Una cosa si nota in tutti: la sobrietà e una sottile malinconia. Mario Rigoni Stern