Afghanistan una guerra dimenticata

Una delegazione della resistenza contro gli invasori sovietici è stata ricevuta dal Papa e da Pertini Una delegazione della resistenza contro gli invasori sovietici è stata ricevuta dal Papa e da Pertini Afghanistan, una guerra dimenticata Dal diario di un prigioniero sovietico «Dovete far presto, cercare uno scambio» W *w # I/mwlmm Un documento a di Piero Sinatti Si fa poco per le condizioni in cui vivono e operano i sovietici, militari e civili, in Afghanistan; ci sono difficoltà obiettive: non solo per il silenzio pressoché impenetrabile dei mass media sovietici, ma anche per l'impossibilità per i giornalisti occidentali di avere un visto per Kabul e gli ostacoli, pressoché insormontabili, che si frappongono all'incontro con i disertori dell'Armata Rossa o 1 prigionieri che si trovano in mano ai moujahiddìn (sono pochi, del resto, e per lo più appartengono alle nazioni Centro Asiatiche dell'Urss). I sette soldati sovietici che si trovano detenuti in assoluto isolamento nel carcere di Zugerberg, nel Cantone di Berna, perché affidati dai ribelli afghani alla custodia svizzera, tramite la Croce Rossa Internazionale, sono inavvicinabili, per lo meno fino al giorno previsto per la loro liberazione, verso l'estate dell'anno prossimo. Tuttavia alcune notizie riescono a filtrare, soprattutto attraverso giornali e riviste dell'emigrazione russa in Oc¬ La delegazione dal Papa. Da si gghiacciante: preso dagli afghani e fucil cidente che attribuisce al conflitto afghano un'importanza enorme, quale possibile fattore di crisi del regime di Mosca. L'ipotesi ci appare eccessivamente ottimistica, se non infondata. Tuttavia i segnali che, frammentari e scarsi, ci giungono dalle poche testimonianze russe che si riescono ad avere rivelano zone di malessere profondo e diffuso. Intanto i soldati sovietici, specie le reclute, sono tenuti all'oscuro fino all'ultimo, circa i veri scopi della guerra che sono chiamati a combattere in condizioni sempre più difficili: si dice loro, quando vengono Inviati a Tashkent e a Termez, centri uzbeki di smistamento e partenza per l'Afghanistan, che dovranno combattere contro cinesi, americani, pakistani, i quali vogliono conquistare quel Paese con la forza; si parla loro di un'imminente conclusione del conflitto e della prossima (e facile) sconfitta dei «banditi» o dushlany, come i sovietici chiamano solitamente i moujahiddìn. Poi, giorno dopo giorno, ci si accorge di combattere duramente contro la gente di quel Paese: l'unico esercito straniero è, quello sovietico. Le condizioni di alloggio sono pessime, specie nelle tendopoli militari presso r" aeròdromi di Kabul e dei. . importanti centri afghani; il caldo è soffocante d'estate e il freddo insopportabile d'inverno; notevole è la diffusione di malattie infettive; il vitto è insufficiente; la disciplina sovente affidata alla brutalità dei sergenti e degli stariki, gli anziani, che vessano violentemente le reclute; infine, si registrano contrasti permanenti tra i russi e gli appartenenti alle altre nazionalità: 'Gli ucraini picchiano i russi e viceversa, i russi picchiano i tadziki, i tartari, i turkmeni e gli uzbeki, e questi ultimi si picchiano tra /oro», ha detto n.; Abdur Rahim, Farida Ahmadi e Hamid Naiml, rappresentante a ato dopo che l'eserc un disertore, il diciannovenne Anatolj Zacharov, intervistato mesi fa da un giornalista della rivista dell'emigrazione «Posev». Anche la droga, sotto forma di hasiiish, si diffonde tra i soldati: i venditori locali, spesso, chiedono armi e munizioni in cambio: stando alla testimonianza di Zacharov, l'anno scorso due suoi commilitoni furono condannati a pesanti pene di carcere per aver preso hashish dando in cambio alcune pallottole. Negli ospedali da campo si incontrano sempre più spesso feriti, ustionati e/o intossicati dalle armi chimiche impiegate nelle operazioni contro i ribelli. Nel numero di marzo dello stesso mensile «Posev», uscito da pochi giorni, appare un documento eccezionale: si tratta di stralci di pagine di diario, appunti, di fotocopie di documenti riservati e copie di lettere di servizio, appartenenti ad un alto funzionario fucilato nell'aprile 1982 dai ribelli afghani della formazione «Herz-l-islami», che lo avevano rapito in pieno centro di Kabul il 14 settembre dell'81. Solo ora sono arrivate alla rivista russa questi documen¬ Roma della resistenza afghana rcito russo ha rifiutato di scambiarlo ti, cui sono state aggiunte copie delle lettere che l'alto funzionarlo scrisse e inoltrò, tramite la Croce Rossa, prima di morire, all'ambasciatore sovietico a Kabul, al premier Tichonov e allo stesso Breznev, perché fossero accettate le richieste dei suoi rapitori che esigevano, in cambio della sua liberazione, quella di cinquanta loro compagni fatti prigionieri dal sovietici. L'alto funzionario si chiamava Evgenij Ochrimjuk, primo consigliere del ministro afghano delle miniere e tra i più importanti dirigenti delle ricerche geologiche e minerarie dell'Urss. Le note del suo diario si riferiscono al lavoro da lui condotto in alcuni giacimenti (rame e carbone) nelle regioni- vicine a Kabul, in particolare nel giacimento di rame di Aikna, a 4D km dalla capitale. Si tratta di uno specialista di notevole statura, al quale il suo governo aveva affidato il compito di valorizzare le ricchezze del sottosuolo afghano: ora, dalle sue pagine, emergono due elementi che illuminano il significato e le condizioni della presenza dei civili sovietici in Afghanistan: i loro compiti di fonda¬ mentale importanza sul piano economico e politico. Le condizioni di lavoro sono difficili: la ricerca e la prospezione avvengono soltanto nelle zone più vicine a Kabul, che possono essere sorvegliate giorno e notte dai soldati sovietici; 11 diario di Ochrimjuk registra i numerosi attacchi dei «banditi», sia al convogli incaricati di portare macchinari e rifornimenti nel punti di ricerca, sia ai punti di ricerca ed estrazione stessi. L'insicurezza è totale. Ochrimjuk (che al pari di tutti gli specialisti e alti funzionari in Afghanistan ha in dotazione personale una pistola Makarov) registra con scarna sinteticità questi attacchi: il suo tono è quello di chi è costretto a subire calamità naturali contro cui altro non c'è da fare, se non difendersi: del resto, i civili sovietici vivono in condizioni di stato d'assedio permanente, confinati in ghetti, vigilati giorno e notte da reparti corazzati del loro esercito. Dagli appunti e documenti del geologo, si nota che i riferimenti implicano sempre impegni a lunga scadenza: ora si parla della necessità di prò- W *w # ' I/' l ":Tlì!->W. "■■ ■■''>' ■<''" E. M. Ochrimjuk, dirigente del gruppo dei geologi sovietici in Afghanistan, è stato preso prigioniero dai ribelli e ucciso dopo che i sovietici si sono rifiutati di trattare il suo scambio. La foto è stata pubblicata dalla rivista «Posev» che si stampa a Francoforte grammare l'Inoltro del materiali necessari al giacimento di Alkan o del suo rifornimento di energia elettrica, da Kabul, per un periodo che va dall'83 all'89; ora si chiede un progressivo allargamento del parco-trlvellatrlcl, per meglio assolvere gli impegni fino al 1990. Non mancano accenni all'ampliamento degli impianti di ricerca petrolifera al Nord del Paese. Ochrimiuk si rivela un uomo appassionato al suo lavoro, estremamente competente; addirittura non esita a criticare una politica — quella impostagli dal suo governo — che fa prevedere in prospettiva un irrazionale e rapace sfruttamento delle risorse naturali afghane. Il fatto che i sovietici non accettino di scambiarlo con i «banditi», la cui liberazione era richiesta dai guerriglieri, è intuita e accolta con enorme amarezza da Ochrimjuk. E' rivelatrice la lettera che egli invia all'ambasciatore sovietico a Kabul, Tabeev, datata 22 novembre 1981. Scrive: -Sono passati 70 giorni da quando mi trovo in prigionia e non so quale sarà il mio destino. Non è difficile capire il mio stato d'animo: sono sempre solo con i miei pensieri; se riesco a padroneggiare i nervi, per il cuore e la testa devo andare avanti a compresse. Mi opprime terribilmente la totale mancansa di notizie sullo scambio, se ci sarà o no. Attraverso la Croce Rossa, so che a Kabul si procede assai lentamente... Trovo increscioso che nessuno entri con umanità nella mia situazione né mi faccia arrivare tramite la Croce Rossa almeno due parole: sarebbero per me come una goccia di balsamo. Invano le aspetto giorno e notte. Spero che si giunga ad un accordo tra le due parti. Ambasciatore, conosco il vostro umano atteggiamento verso la gente, comprendete la mia situazione e fate tutto quello che potete per salvare la mia vita. Difficile dirvi quanto sia stanco. Affrettatevi, vi prego, a trovare una soluzione». Questa lettera, come quelle inviate ai capi, restò senza risposta. Segno di una guerra spietata, intorno alla quale si continua a mantenere una fitta cortina di silenzio. Eppure, con gravi ritardi e tra mille difficoltà, queste prime prese di coscienza affiorano e rivelano una situazione complessa: le vittime non sono soltanto dalla parte degli afghani oppressi; sono anche tra gli occupanti, siano soldati (quanti ne sono morti? Cinquemila, diecimila? Mosca tace) o alti esponenti della nomenklatura, spediti, come Ochrimjuk, in Afghanistan, a difendere gli indifendibili interessi dell'impero.

Persone citate: Abdur Rahim, Breznev, Evgenij Ochrimjuk, Farida Ahmadi, Hamid Naiml, Herz, M. Ochrimjuk, Makarov, Pertini Afghanistan, Piero Sinatti