Cara Repubblica

Cara Repubblica UN BILANCIO DOPO 35 ANNI DI STORIA Cara Repubblica «Mentre chiudo questa storia nella primavera del 1982, la società italiana appare divisa, schizofrenica. C'è una società civile che procede per conto suo, indifferente ai partiti, insofferente della loro tutela. E' la società che nonostante tutto continua a produrre, a mantenere il Paese in uno stato di benessere. Il terrorismo dopo il fallimento del rapimento Dozier è alle corde, militarmente e politicamente: senza prospettive politiche, con la frana interna dei pentiti. La vera novità, la sola speranza della Repubblica, è la svolta storica del partito comunista, ma forse anche per questa svolta la prima Repubblica è davvero morta: andiamo a soluzioni, a ipotesi di lavoro politico e industriale per cui occorrono nuove istituzioni, nuovi partiti. Della prima Repubblica si può scrivere la storia». Così Giorgio Bocca termina il suo abbozzo, meglio il suo affresco di Storia della Repubblica italiana dalla caduta del fascismo, uscito per i tipi di Rizzoli e che contemporaneamente ogni settimana, con molte varianti e aggiunte, ritorna in una serie di dispense, curate dallo stesso autore e arricchite da testimonianze di personaggi e di protagonisti del trentacinquennio repubblicano. E' un libro che è uscito da qualche mese, e che ho letto qualche mese fa, quando ero ancora presidente del Consiglio. Non ho voluto parlarne allora: preferisco oggi soffermarmi su taluni degli spunti stimolanti che la lettura del testo di Bocca, come sempre efficace e lampeggiante, ha suscitato in me, storico prima che politico. ** Discuterei in primo luogo la necessità di scrivere la storia solo di ciò che si awii alla morte, o che sia già morto. Giorgio Bocca è troppo a metà fra la storia e il giornalismo per non sapere che nella vita dell'Italia moderna e contemporanea tutte le storie partono da spunti di polemica o di vibrazione autobiografica: intendendo l'autobiografismo nel più ampio senso crociano. Nessuno ha stabilito che un • ciclo storico debba essere chiuso prima di affrontarne la ricostruzione in termini rigorosamente storiografici. «5; può scrivere la storia della Repubblica»? fu proprio un interrogativo che, posto da me su queste colonne, sei anni fa, il 26 gennaio 1977, determinò una significativa polemica con Giorgio Amendola. Da allora le trasformazioni della storiografia sono state altrettanto decisive delle metamorfosi dei partiti. Molti schemi manichei, che avevano caratterizzato la vita italiana nella stagione della guerra fredda, sono stati dissolti prima in sede storica che politica. Penso al riesame di De Gasperi da parte di certi cattolici; penso al riesame di Togliatti di certi comunisti. (Sono tutti temi familiari a Bocca, che ha scritto una biografia, ancora straordinariamente utile, di Togliatti). Nulla quaestio, quindi, sulla legittimità di tentare una storia della Repubblica italiana, non in quanto fatto classificato o classificabile nelle categorie di una storicità compiuta, ma in quanto fatto vivo e autobiografico per ognuno di noi. Fissata questa pregiudiziale, di tipo diciamo cosi universitario e culturale, resta la seconda risposta da dare agli interrogativi di Bocca, interrogativi che non mancano di punte angosciose. Ebbene: la stessa costruzione complessiva del libro di Bocca ci dimostra che l'autore, nonostante il suo pessimismo sdegnato, e comprensibile, è il primo a non essere convinto delle conclusioni radicali e catastrofiche cui giunge in quelle poche righe finali, in quel paragrafo tormentato e drammatico che si intitola «La crisi della Repubblica». l'aeriamo il confronto fra le prime e le ultime pagine. Il capitolo «Nasce la Repubblica» parte da una diagnosi se' vera del duopolio cattolico-comunista, già contenuto in radice nella crisi del governo Parri e nell'avvento di De Gasperi. Bocca giudica sconfitti in partenza i fantasmi risorgimentali, gli ideali fioriti nella breve e nobilissima esperienza rappresentata da Patri. «E un presidente estraneo sia all'Italia clericale sia a quella marxista, sia al grande capitale del Nord sia al movimento contadino del | Sud». Questo è il giudizio lapidario di Bocca. «1 signori dei partiti di massa» lo travolgono: il ruolo dei liberali è solo strumentale e intermediario. Un certo equilibrio fra De Gasperi e Togliatti si crea fin dall'inizio. Bocca, che proviene dalle esperienze del partito d'azione, che ha vissuto la parabola di «Giustizia e Libertà», guarda a un'Italia diversa, dove il ruolo dei «vinti» — come li chiamava Giorgio Amendola — sia maggiore, dove l'influenza degli ideali di libertà e di redenzione sociale possa essere più incisiva e operante. Senonché trentacinque anni di storia non sono passati per niente. Un fondo di «patto costituzionale», una specie di gentlemen's agreement fra i maggiori partiti, ha sempre resistito al tendenziale bipolarismo, temperando le asprezze di tutti i contrasti. Ma accanto al duopolio c'è stato l'antiduopolio: il tentativo costante di romperlo, di condizionarlo, quel rapporto, il centrismo prima, il centrosinistra poi, con un ruolo delle forze laiche e socialiste che talvolta Bocca ha il torto di diminuire (ingiuste le pagine su Saragat, ingiuste le pagine su La Malfa). No: la storia della Repubblica italiana, quale affiora dalle pagine diseguali ma efficaci di Bocca, è la storia di prove difficili, vinte dalle straordinarie risorse di un popolo che la sua classe politica non è riuscita sempre a dirigere con la visione precisa e rigorosa degli obicttivi da raggiungere. Mi torna in mente la conclusione con cui Kogan, allievo' di Salvemini, chiude la sua Storia politica dell'Italia repubblicana, un libro quasi contemporaneo di quello di Bocca: «Im gente aveva superato prove difficili con una capacità di ripresa ammirevole. L'uomo della strada continuava ad essere il vero eroe del Paese». Se ci mettiamo dal punto di vista del popolo italiano, che forse non riesce ad essere ancora al centro della storia di Bocca, come Bocca avrebbe voluto, le conquiste e le trasformazioni sociali di questi trentacinque anni di vita repubblicana apparirebbero in una misura che nessuna delle statistiche o dei diagrammi riferiti nel libro è sufficiente a mettere in luce. Più grandi che nei duemila anni successivi all'avvento del cristianesimo: secondo la testimonianza di un oppositore, Giorgio Amendola. Un'ultima conclusione circa la lotta contro la corruzione e contro gli scandali, che in questo momento è cosi forte in Italia. Ma come negare l'evoluzione della società italiana anche in questo campo? Ancora tre o quattro anni fa, una reazione, come quella che ha investito lo scandalo delle nomine dell'Eni o le vicende della giunta di Torino, non sarebbe stata concepibile nell'opinione pubblica italiana. Attraverso un processo tormentato e contraddittorio ci sono alcuni clementi che ormai caratterizzano il Paese reale: la necessità di separare la sfera della società civile da quella dei partiti, una coscienza dello Stato più alta, un'intolleranza della confusione fra pubblico e privato che potrà diventare decisiva anche nelle prossime competizioni elettorali. ** Non sarei cosi pessimista come Bocca. La Repubblica ha superato la minaccia più drammatica con la vittoria politica sul terrorismo (a proposito: fra le parti migliori del libro di Bocca, l'analisi sempre attenta e documentata dei fenomeni terroristici, sia rossi sia neri). Le difficoltà della crisi economica, una crisi economica comune all'intero Occidente, hanno alcuni riflessi peculiari in Italia; ma è in atto un processo di revisione nel sindacato, la media e piccola impresa resiste a tutti i «lacci e lacciuoli», l'inflazione è sentita come un male, la dissipazione della.spesa pubblica anche. Sì: non è mancata certo la «promozione di scaltri e di opportunisti», ma l'essenziale è che nasca nelle forze politiche democratiche, soprattutto nelle forze democratiche di sinistra, quel sentimento di riscossa contro l'assistenzialismo, contro il paternalismo, contro la corruzione capace di superare il gap fra società civile e classe politica. Nella stessa evoluzione dei partiti italiani non mancano segni positivi. Rispetto a trent'anni fa — lo rilevai in un dibattito televisivo con Kogan, qualche mese fa — i partiti ora appaiono molto meno discriminatori, molto meno polemici, molto meno manichei. C'è in atto un rifiuto di ideologie, come direbbe Colletti: un ritorno salutare al pragmatismo. La società industriale, in Italia, è nata tardi e magari male; ma non è nata per niente. Giovanni Spadolini

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