Architetti del duce

Architetti del duce LA CULTURA DEL TEMPO FASCISTA Architetti del duce Nell'anno mussoliniano si riaffaccerà di frequente l'interrogativo, già apparso tante volte in passato, se sia esistita una cultura fascista, e quale valutazione se ne debba dare. Un modo sbagliato di porre il problema è però quello di considerare strettamente legati i due termini del rapporto, il regime fascista da una parte, la cultura italiana negli Anni Trenta dall'altra. Al regime fascista si deve senza dubbio riconoscere, come diremmo òggi, un'«occupazionc» totale della società politica e dei suoi spazi. Molto meno diretta e assoluta fu, invece, la presa sulla vita culturale dell'epoca, che ebbe .quindi un decorso non troppo diverso (ci si può permettere di ipotizzare) da quello che sarebbe stato anche ne) caso che si fosse avuta una normale continuazione del regime parlamentare. Un decorso che oggi ci appare sempre più ricco e animato, gravido di sviluppi da cui siamo ancora coinvolti. La ricchezza di cui oggi ci accorgiamo riguarda in modo particolare l'architettura dell'epoca, mai così fertile e vivace, in tutta la nostra storia recente, come appunto nei famigerati Anni Trenta. Ma anche a questo proposito bisogna subito respingere una tenta zione manichea, di vedere gli architetti di quel momento di stribuiti in due campi avversi: i progressisti, che si richiamavano al razionalismo e al funzionalismo (Terragni, Pagano, Figini, Pollini), e i reazionari, i monumentalisti, affezionati all'arco e al pilastro, seguaci di Piacentini e particolarmente adatti alla vocazione celebrativa del regime. 1 primi rappresentarono l'ingresso del Movimento Moderno nel nostro paese, e infatti in qualche modo si ispiravano al motto rimbaudiano secondo cui «il faut étre aho!limili moderne», escludere cioè ogni ricordo del passato per mettersi al passo col progresso tecnologico, dominato dal la màcchina e dai suoi nudi schemi geometrici. Gli altri invece ritenevano che le glorie del passato fossero consone ; un'Italia intenta a ritrovare i suo ruolo di grande potenza. ** Ma fra gli uni e gli altri csi stevano molte figure intermedie che puntavano al moderno senza escludere qualche citazione e recupero del passato, E oggi sono proprio queste figure a intrigarci, con un ritrovato sapore di attualità, auspice in ciò il clima che si richiama al postmoderno, e che appunto mira a un diverso equi librio tra i due poli opposti del passato e del futuro. Forse il leader di questa «terza via» fu Giovanni Muzio, spentosi quasi novantenne nel maggio scorso, al momento simbolico in cui si chiudeva la mostra milanese sugli Anni Trenta, che tanto ha contribuito a sol levare questa problematica. La sua opera più nota e di maggiore clamore pubblicitario era stata edificata all'inizio degli Anni Venti (dunque, in un periodo non ancora sospetto di essere controllato dal re girne). L'edificio, che sorge tuttora a Milano tra le vie Tu rati, Moscova e Mangili, ven ne soprannominato dal popò-, lo, eloquentemente, col nomi gnoio dispregiativo di «Ca' Brutta» che gli è rimasto. Un giovane studioso, Fulvio Irace, gli ha appena dedicato un saggio (Officina Editori, L. 6000). Muzio, in quella sua prova ambiziosa, non contraddiceva affatto l'intento «moderno» di offrire una «macchina per abitare». Si tratta infatti di un enorme condominio di appartamenti privati. Ma intanto la sua mole non disdegnava una pianta a curva, piuttosto che iscriversi in uno schema rettangolare. E soprattutto, non si lasciava intimorire dal famoso detto pronunciato qualche tempo prima dall'architetto proto-moderno Adolf Loos, secondo cui «l'ornamento è un delitto». I molti ordini di piani ' (sci) in cui si articola l'edificio, infatti, risultano scanditi da ogni tipo di ornamenti ricavati dal manuale di storia dell'architettura: timpani, architravi, nicchie, occhi di bue, piramidi, sfere. 11 tutto profuso a piene mani, cosi da assecondare un criterio di moltiplicazione quantitativa tipicamente moderno, ma da non privarlo, d'altra parte, delle grazie ornamentali. O in altre parole, la macchina non si presenta nuda c spoglia, in un'orgogliosa ma sterile autocelebrazione; e del resto gli orpelli del passato non vengono riproposti in modi ligi e rispettosi: l'architetto non si sente tenuto a riipcttare un unico stile, a sottostare ai canoni della cocrcnformale. Potremmo quasi dire che è come se avesse riversato in un computer tutti i motivi decorativi del passato, indipendentemente dai rispettivi codici stilistici, senza cioè stare a distinguere tra classico, barocco, rococò, lasciando poi che fosse il computer a restituirglieli, variati e ibridati tra loro. Il passato, insomma, viene ripreso, ma nell'ambito di una spinta futurista di progresso, di dilatazione infinita, messa in atto da un lucido testimone che sente di avere a disposizione l'intero repertorio degli stili storici, e quindi prende liberamente il suo bene ovunque. ** Questo è già in ntice un atteggiamento postmoderno, e nfatti il medesimo studioso, Fulvio Iracc, ha confezionato per alcuni musei statunitensi una mostra fotografica di opere di Muzio e di altri, ponendola all'insegna accattivante del pre-postmoderno. Inutile dire che il discorso non vale solo per la Ca' Bri/Ila, ma anche per le creazioni successive di Muzio, sempre a Milano: l'Angclicum, l'Università Cattolica, il Palazzo dell'arte, anche se, inoltrandosi verso gli Anni Trenta, il suo computer 'dcalc diviene più parco nello sfornare stilemi e citazioni, e anzi, egli si dà a costruire sulla base di una bellissima tensione tra l'angolo retto e l'arco a tutto sesto: quasi i due principi antitetici, i simboli di due età contrapposte: quella moderna della macchina, o dello «hardware», e quella elettronica, o del «software». E beninteso Muzio non è un isolato, nel seguire questa «terza via». La mostra di Irace documenta anche altre bellissime-invenzioni di Gio' Ponti, Piero Portaluppi, Aldo Andrcani, Gigiotti Zanini. Un diverso episodio, anch'esso al centro dell'attenzione, è costituito dalle cosiddette «città di nuova fondazione» dell'Agro Pontino: Littoria, Sabaudia, Pomczia, Aprilia. La prima, oggi ribattezzata Latina, ha celebrato qualche tempo fa il mezzo secolo dalla posa della prima pietra, con la partecipazione solenne di Peróni e con l'inaugurazione di una mostra documentaria. Anche qui conviene scindere l'aspetto estetico-culturale da quello politico. Non si tratta cioè di difendere una tipica operazione del regime, che mirava a fini propagandistici, e che accanto alle luci esibite ebbe anche molte ombre; inol tre, quale Paese civile, in una fase di sviluppo, si sarebbe potuto esimere dal fare altrettanto? Resta il carattere affascinante di quelle costruzioni, magari dovute a nomi non di grido (Latina fu firmata dal quasi sconosciuto Oriolo Frezzotti), i quali avevano assorbito una cultura metafìsica di ispirazione dechirichiana, e trovarono quindi la forza di materializzare i paesaggi urbani delle «Muse inquietanti». La piazza di Latina e dominata dal Municipio, da cui svetta una torre colma di «enigma e nostalgia», che d'altra parte risponde anche al gusto di un assemblaggio creato come da un bambino o da un naif accumulando i cubetti di qualche gioco didattico, di qualche scatola recante in miniatura materiali architettonici vari. Quel clima metafisico, come è noto, ha fatto breccia nell'animo sensibile del regista Ferreri, che vi ha ambientato il suo recente «Storia di Piera», anche se la scelta del luogo non sembra, in questo caso, consona alla vicenda, che si accorderebbe meglio al caldo e sanguigno sfondo di una città emiliana. Resta il fatto che l'atmosfera di Latina e di Sabaudia è «magica», e che fu un apprezzabile gesto di coraggio, allora, evitare le due soluzioni opposte: o uno scostante modernismo, oppure un passatismo «in stile». 11 problema è ancora drammaticamente aperto ai nostri giorni, basti pensare ai paesi distrutti dai terremoti, ove urge una ricostruzione. Ma appunto, quale soluzione adottare? Il «moderno» dei cubi e parai lelepipedi anonimi, oppure il folclore tradizionale, il rifacimento pedissequo dell'esistente? Converrebbe invece tentare la diffìcile equazione postmoderna che non rinuncia al nuovo, ma cerca di non renderlo oppositivo c distruttivo rispetto alle memorie del passato. Renato Barili!