L'avventura del re di maggio

L'avventura del re dì maggio DISAPPROVO' LA FUGA DELLA MONARCHIA DA ROMA. MA NON SEPPE EVITARNE LA FUNE L'avventura del re dì maggio «Che figura, che figura...», sospirò durante la fuga della famiglia reale e di Badoglio nella notte fra l'8 e il 9 settembre '43 • Ma non osò tornare a Roma per non contravvenire alle direttive del padre: «I Savoia regnano uno alla volta» - La nomina a Luogotenente del regno - L'incontro con Croce - Avrebbe potuto contestare la validità del referendum del 2 giugno 1946: perché non lo fece? Vittorio Gorreslo preparò questo articolo sei mesi fa, quando Umberto di Savoia, colto da una crisi che sembrava fatale, fa ricoverato alla London Clinic. E' il ritratto inedito scritto dal più grande memorialista politico del dopoguerra. ULTIMO Re d'Italia per un mese—dal 9 maggio al 13 giugno 1946 — è naturale che Umberto li non abbia lasciato una traccia profonda nella storia; e anche nella memoria degli italiani di oggi probabilmente ha un posto molto piccolo. I ■ più, mi immagino, hanno > avuto contessa di lui soltanto in occasione del servizio televisivo dedicato a suo padre Vittorio Emanuele III, che la Rai trasmise in cinque puntate con il titolo II piccolo re nell'ottobre del 1979. Una autentica gemma di quel servigio era difatti una lunga intervista concessa da Umberto a Nicola Caracciolo, Metterà conto di stralciare dalla registrazione testuale qualche battuta di Umberto a proposito della fuga della famiglia reale e di Badoglio da Roma a Pescara nella notte fra l'8 e il 9 settembre 1943, appena reso noto l'armistizio. Umberto non ha avuto nessuna difficoltà ad ammettere (direi a confessare) che egli era solito seguire le direttive di papà. Anche a sua moglie, Maria José del Belgio, pare che un giorno abbia detto con adamantina serietà dinastica: «I Savoia regnano uno alla volta», e ciò doveva significare che il capo famiglia aveva in esclusiva tutti i diritti, e i figli si rassegnassero all'obbedienza. E' cosi che si spiega come nemmeno il giorno della fuga a Pescara Umberto pur non essendo un pavido non ebbe l'animo di prendere una decisione di testa sua. Ci sono molti testimoni che affermano di averlo visto profondamente contrariato dall'esodo: .Che figura...,che figura...» continuava a sospirare, e avrebbe anche manifestata il proposito di tornarsene a Roma. Risulta in ogni modo dalle sue dichiarazioni in Tv che egli soprattutto disapprovava «il modo» della fuga, «Aver lasciato Roma in quel modo può essere stato uno sbaglio, In quel modo, senza avvisare i ministri, ecco, quella era l'unica cosa che ancora adesso sono convinto che sia stata uno sbaglio». Impreparato Una testimonianza monca, senea valore ai fini di un accertamento storico ma viceversa di importanza eccezionale per la conoscenza e l'interpretazione del personaggio, degnissimo individuo di buona volontà, ma inetto per temperamento e educazione, e direi — meglio —per lo stato di minorità in cui fino ad allora lo aveva costretto suo padre (e beninteso anche il regime) tanto da renderlo un uomo che di lui più impreparato a regnare è difficilmente immaginabile. Difatti appena designato da Vittorio Emanuele III a luogotenente del regno, < quando ancora non si era insediato nell'incarico, commise la sciocchezza di concedere nel maggio del '44 al Times di Londra un'intervista che Benedetto Croce definì «Bclagu rata». In essa Umberto testualmente affermava che •tutto 11 popolo italiano aveva voluto la guerra alla Gran Bretagna e alla Francia, e che il re aveva accontentato 11 popolo in questo spontaneo suo desiderio». Ciò era falso, falsissimo, ma per di più ridicolo, e quindi Croce postillava: «Purtroppo, 11 luogotenente designato dal re non si può dire che abbia fatta con le parole della sua intervista, una felice entrata nella vita politica italiana.. Per salvare l'istituto che egli considerava più idoneo a rappresentare l'unità nazionale. Croce con altri (De Nicola, ad esempio) si era fatto • promotore di una proposta coraggiosa: che non soltanto Vittorio Emanuele abdicasse, ma rinunciasse alla successione anche suo figlio Umberto, in qualche modo compromesso con il fascismo sia pure senza colpa grave. Sarebbe stato nominato un consiglio di reggenza con il compito di tenere in caldo il trono per Vittorio Emanuele principe di Napoli, allora bambinello di4oS anni, del quale De Nicola, andava procurando l'indiscutibile innocenza: «O' piccirillo non tiene colpa né peccato». Non è da escludere che se allora fosse stata presa come buona ragione politica una- simile ovvia verità, magari il referendum del 2 giugno '46 fra monarchia o repubblica non ci sarebbe stato, e oggi magari ci troveremmo ancora ad avere un re, il Vittorio Emanuele IV di cui le cronache talvolta hanno dato notizie men che onorevoli o anche soltanto poco lusinghiere. Uno scandalo Non vedo insomma che cosa avremmo guadagnato se le proposte Croce-De Nicola per il mantenimento della monarchia mercè l'intervento di garanti irreprensibili fossero allora state accolte. Si sa però con sicurezza che esse furono respinte dagli stessi monarchici, prima di tutto perché l'istituto della reggenza non era previsto nelle carte dinastiche, ed in secondo luogo perché—strettissima consequenzialità — attorno ai seggi del consiglio di reggenza si sarebbe fatalmente scatenata una lotta feroce di imprevedibile esito. Avrebbe preteso di esservi, naturalmente, la madre del bambino, Maria José del Belgio, che però non godeva di alcuna simpatia nella cerchia di casa Savoia. Poi ci voleva un militare, e si sarebbe forse imposto il solito malnato maresciallo Badoglio, che Umberto aveva francamente in odio. E poi, secondo vecchie tradizioni in materia, come'si sarebbe potuto fare a meno di un ecclesiastico di peso? E con il papa di quel momento, che era il terribile Pio XII, chi sa mai quale cardinale e con che direttive pontificie sarebbe entrato in Quirinale. Tutto sommato meglio, cosi, e cioè che l'idea della reggenza sia stata respinta dai monarchici per t primi. E' d'altra parte onesto ammettere che il quarto re d'Italia, Umberto II, non fu il peggiore in quell'arco di quasi un secolo che durò la monarchia unitaria in Italia. Croce continuava a considerarlo una mediocre figura, e nel suo diario sotto la data del 22 febbraio 1944 ha tracciato un quadretto deliziosamente malizioso détta serata da lui trascorsa con i Savoia nella villa Acquarone a Rovello: «E' sopraggiunto il principe di Piemonte che è venuto a passare la domenica con la madre; e la cena è stata assai malinconica. In una stanza scarsamente illuminata, con la regina che non aveva niente da dire, il principe che non prendeva la parola se non per rispondere a domande mossegli dal padre, e il re che discorreva di certi luoghi della Calabria da lui visitati e di altre cose affatto estranee all'ospite». L'ospite — cosi indicato con voluta modestia — era precisamente lui. Benedetto Croce, che certo un poco si risentiva della disattenzione di cui lo facevano oggetto i suoi regali convitanti. Però, nella sua chiara rettitudine Intellettuale, lo stesso Croce andava gradualmente modificando i suoi giudizi che su Umberto erano stati un tempo tuta negativi. Ancora nel suo diario, sotto la data 26 aprile 1944, si leggono difatti note ispirate t una serena comprensione «Alle undici è venuto il principe di Piemonte che si è trattenuto con me un'ora. Io gli ho detto quale, a mio vedere, aia ai nostri giorni l'avversa sorte dell'idea monarchica e quanto difficile la situazione sua personale, e gli ho mostrato la convenienza di far bene intendere, quan do assumerà, la luogotenen za, il pieno distacco suo dal precedente suo contegno politico, che a tutti è parso passivo, e inoltre di riformare interamente la sua corte, scegliendo uomini che siano affiatati con i partiti democratici (...). Egli mi ha detto che per anni e anni ogni suo conato è stato impettito o represso da coloro che stavano attorno a suo padre. Mi ha parlato con molto impegno e competenza di sue ricerche storiche e di raccolte che ha fatte di assai pregevoli docu menti della storia del Pie monte e di Napoli. L'impres sione che io ho riportata oggi, conclude Croce, mi lascia perplesso sull'ingegno e sulla passione e il vigore politico del principe». . Se non ravvedimento, c'è un "ripensamento del quale mi sembra giusto parlare. Capita in giugno del 1944 quando gli esponenti del partito d'azione ^«sempre lo scervellato partito d'azione», scrive Croce nel diario) si fanno avanti a reclamare il ritiro del principe di Piemonte dalla luogotenenza che gli sta per essere affidata, e che gli venga sostituito il duca di Genova ideila cui capacita non vola alta la fama./ «Ma come?», si domanda Croce con serietà politica, subito dopo essersi permesso l'ironica battuta sul talento di uno degli altri principi Savoia, «nel momento in cui il re esegue ciò che ci aveva promesso e che noi avevamo accettato, e quando gli alleati non permetteranno .mutazioni di ciò che è stato transatto e stabilito, pretendere di mandare tutto all'aria e attirare su noi un inevitabile rifiuto e una mortificazione? E perché questo tentativo — tentativo dell'impossibile — non si è fatto nell'occasione dell'intervista data dal principe al Times?». Insomma, Croce a un certo punto si fece difensore d'ufficio di Umberto presso altri partiti del Cln, e probabilmente non ebbe poi a pentirsene, se si tien conto di uno degli episodi salienti (si fa per dire) dell'esercizio della luogotenenza da parte del principe di Piemonte. L'episodio (è curioso notarlo) è anch'esso imperniato su dichiarazioni fatte a una giornalista inglese, Silvia Springe, da un altro dei tanti principi sabaudi, Aimone duca d'Aosta, quello che era stato il fittizio re di Croazia con il bel nome di Tomislavo II. Senza aver mai messo piede nel suo regno, ora in Italia era ammiraglio di squadra e inalzava la sua bandiera, a Taranto; <Nt uno dei pochi incrociatori che ci erano rimasti. Un giorno di marzo del 1945 invitò a bordo per colazione Silvia Sprigge, molto stimata corrispondente del Manchester Guardian dall'Italia. La notizia del momento era il processo dell'ex capo di stato maggiore dell'esercito generale Mario Roatta, e della sua fuga misteriosa dall'ospedale militare con l'evidente complicità di chi lo aveva in custodia. Venuto il discorso — còme era inevitabile — su quel tema di scandalo del giorno, il duca lasciò cadere un giudizio spiccio: «Li avrei fucilati tutti!». La Sprigge credette che Aimone si riferisse a Roatta e ai suoi coimputati, ma il duca precisò, «No, lo intendevo 1 giudici» Segui uno scoppio di polemiche perché la storia si riseppe, la Sprigge chiamata in causa come testimone la con fermò, e il presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, espresse un pacato giudizio: •E' da ritenere che il comportamento del duca sia stato in contrasto con gli obblighi spettanti alla sua posizio¬ ne». Il ministro della Marina, ammiraglio de Courten, condusse un'inchiesta, e in conclusione il 7 aprile 1945 il luogotenente del Regno Umberto di Savoia dovette esonera-. re suo cugino dal comando. In questa storia ci può essere un risvolto delle rivalità che in casa Savoia sono esistite sempre fra il ramo primogenito e quello degli Aosta, ma non mi sembra lecito ridurre tutto a una storta di famiglia: qui a mio giudizio c'è la prova che Umberto aveva cominciato ad imparare la lezione della democrazia, ed è opinione abbastanza diffusa anche tra l suoi detrattori della vigilia che, se le cose fossero andate per un altro verso, probabilmente noi avremmo avuto in Umberto il migliore tra i quattro re che la sua dinastia ha fornito all'Italia, Certo, qualche sforzo per adeguarsi alla nuova realtà lo faceva. A Lucio Lami del Giornale nuovo, ha raccontato che durante la guerra, nel corso di un'ispezione a reparti combattenti in Romagna fu ospite di un gruppo di partigiani: «Con questi partigiani mi trattenni a lungo; mangiai con loro in una cascina e fummo sorpresi dal lancio di alcune granate. Ricordo che c'erano molte ragazze giovani che combattevano in quel battaglione; avevano preparato un tavolo all'aperto, e una di loro venne a salutarmi e mi mise il suo fazzoletto rosso al collo». Gentile e generoso sangue romagnolo: ma Umberto ai partigiani rende anche meriti maggiori: «Ricordo che nel dintorni di Ravenna tutte le strade erano state minate dai tedeschi e noi potevamo muoverci solo grazie a certi reparti di partigiani che ci precedevano e che coraggiosamente procedevano allo sminamento. Erano stati minati anche gli argini del Po e i campi circostanti. Ricordo che visitai molti punti nevralgici di quel fronte, in particolare ho in mente un nome, Plratello, una frazione di Imola: fu là che ci sorprese un'imboscata e ci spararono addosso dietro le mura del cimitero. Fortunatamente 1 proiettili si infilarono tutti nella parte posteriore della nostra macchina». L'unica arma Poi una volta, il 4 maggio, andò in aereo a Milano, e a Villa Crespi ricevette il questore e il generale Raffaele Cadorna: «La sera fui ospite nel castello di Carimate, e l'indomani fui rimproverato dell'imprudenza perché carri tedeschi erano ancora a poca distanza da quei luoghi. Mi riferirono che Pertlnl. quel giorno, passò davanti a Villa Crespi e saputo che c'era il luogotenente, sparò alcune raffiche. Ma è passato tanto tempo; non ricordo neppure chi me ne parlò» Non ho trascritto per inte¬ ro il racconto che ha fatto della sua guerra, ma il senso credo che già risulti sufficientemente chiaro da fornire un altro piccolo contributo ad un miglior profilo del personaggio, un uomo tranquillo. e disponibile, onestamente pronto al dovere, ed altrettanto onestamente rammaricato che dagli alleati nuovi padroni non gli fosse consentito di fare, in pratica, nulla, oltre che distribuire in abbondanza decorazioni e onorificenze ad ufficiali americani. «Ola. Era l'unica arma in mio possesso e me ne servivo proprio per cercare di convincere gli alleati delle nostre buone intenzioni. Non era cosa facile, ma l'onorificenza era sempre ambita». Non riesco a immaginare se in questa frase Umberto mettesse un poco d'ironia, ma non sarei propenso a crederlo: dimostrazioni di sense of h umor in altri casi ne ha date poche, e comunque sarebbe molto strano che un re come fu lui, cioè dotato di una forte coscienza della propria dignità di sovrano, avesse dà sorridere di fronte alla gioia di chi si vedeva onorato dalla sua augusta benevolenza distintiva. Il re è difatti il primo che deve prendere sul serio il suo mestiere, che spesso è quello di premiare, e non a caso — fino all'ultimo — Umberto è stato prodigo nel distribuire insegne degli ordini cavallereschi e titoli araldici. Róma, 13 giugno '46. Umberto II parte da Campino verso l'esilio in Portogallo