Un presidente a cavallo della tigre

Un presidente a cavallo della tigre LE MEMORIE DI NIXON TRA VIETNAM, GUERRA DEL KIPPUR E WATERGATE Un presidente a cavallo della tigre Un uomo fuori del comune nel bene e nel male, che riportò l'ordine in un'America travagliata Ciascuno di noi ha le sue abitudini di lavoro. Nixon usava il magnetofono (e mal gliene incolse). Churchill preferiva dettare a una bella ragazza. Breznev si dichiarò d'accordo con Churchill; e aggiunse scherzando: «Inoltre una segretaria è particolarmente utile quando uno sì sveglia di notte e vuol buttar giù un appunto». L'aneddoto è raccontato da Richard Nixon,. nel secondo volume delle sue Memorie (Milano, Editoriale Corno), assai interessante sotto molti aspetti. Breznev come Kruscev aveva il sense of humour. Ma quest'ultimo era talvolta «greve e volgare», Breznev sapeva essere «molto caloroso ed amichevole» ed anche piuttosto «istrionico». Una volta imitò John Wayne davanti alla delegazione americana. «La forza complessiva di Breznev è fuori discussione... ha una voce forte e profonda, enorme magnetismo ed una gran carica animale che sono evidenti... benché parli troppo e con poca precisione, s'impone sempre energicamente e possiede una grandissima astuzia...)): queste annotazioni, Nixon le fece du rante la sua visita a Mosca nel maggio del 1972, quando, nonostante i massicci bombardamenti aerei americani sul Vietnam, si giunse ad alcuni importanti accordi, tra cui quello sulla limitazione delle armi strategiche (Salt), e l'altro sul codice di condotta nelle relazioni tra Usa ed Urss, fissato in . «dodici principi fondamentali» 11 presidente si era recato a Mosca, in un cerio senso «via Pechino». Era stata questa sua abile mossa a indurre il Cremlino ad accettare il summit, nonostante la grave situazione nella penisola indocinese. Il viaggio di Nixon in Cina era avvenuto nella seconda metà di febbraio, dopo una lunga preparazione diplomatica per il tramite romeno e pakistano. Infine Henry Kissinger ne ave- * '- À va predisposto i dettagli. Il raffronto tra gli statisti russi e quelli cinesi era inevitabile. Mao aveva ricevuto il presidente americano in una stanza non lussuosa della sua residenza, piena di libri e di carte. Racconta Nixon: «La sua segretaria lo ha aiutato ad alzarsi. Quando gli ho stretto la mano mi ha detto "Non parto molto bene". Dopo, Zhou mi ha detto che Mao era malato da circa un mese di bronchite». Anche Mao aveva un note-' vole senso dell'umorismo. Lodò l'abilità di Kissinger nel mantenere segreto il suo viaggio a Pechino. «Non ha l'aria dell'agente segreto, disse Nixon, è il solo uomo che è potuto andare dodici volte a Parigi ed una a Pechino senza che nessuno lo sapesse, — a parte forse un paio di ragazze». «Quelle non lo sapevano, intervenne Kissinger, mi sono servite da copertura». «A Parigi?» domandò Mao incredulo. Breznev giudicava Mao «un filosofo non una persona pratica, una figura simile a un dio» e aggiunse che «i cinesi sono assai difficili da comprendere». Era stato per lui un vero choc quando, durante la rivoluzione culturale, decapitavano la gente nelle piazze. Evidentemente aveva dimenticato quello che era accaduto in Russia durante la rivoluzione. A parere di Nixon, Zhou Enlai aveva «eleganza e durezza», un binomio molto insolito al giorno d'oggi. Impassibile, ma attentissimo era ugualmente a suo agio in rapide indagini filosofiche, analisi storiche, sondaggi tattici e risposte spiritose. Era rimasto profondamente offeso quando nei 1954, a Ginevra, John Foster Dulles si era rifiutato di stringergli la mano. Zhou era uno dei pochi statisti che sapesse conversare a grandi linee sugli uomini e sulla storia. La sua cultura era impressionante. Al momento di accomiatarsi volle citare una poesia di Mao, in cui si parlava del susino che fiorisce in pieno inverno per annunciare la primavera. «Ho cercato solo d'illustrare il modo di pensare dei cinesi», disse. Ma l'allusione alle promesse di un incontro che avveniva per la prima volta dopo oltre vent'anni era quanto mai chiara. Nixon si rivela anche in questo secondo volume delle sue Memorie un attento e acuto osservatore, uno statista che possiede in gran misura la dote di semplificare i problemi. Che abbia avuto successo in politica estera non vi sono dubbi. Tra il 1969 ed il 1973 provocò un radicale mutamento nella posizione americana semiparalizzata dalla politica del containement. Riuscì ad aprire un dialogo con l'Urss che doveva rivelarsi particolarmente fruttuoso sia in fatto di distensione, sia in occasione della guerra dello Yom Kippur. In quest'ultima circostanza non soltanto riarmò le truppe israeliane con un ponte aereo superiore in quantità a quello famoso di Berlino del 1948-9, ma impedì anche un minacciato intervento sovietico. Dopo aver messo in stato d'allerta tutte le forze annate americane, inviò un messaggio a Breznev in cui tra l'altro diceva: «Dobbiamo considerare la sua proposta di azione unilaterale come un argomento di notevole gravità e d'incalcolabili conseguenze». Breznev capi l'antifona, e capi soprattutto l'importanza di non lasciar cadere l'impegno russo-americano di prevenire una guerra nucleare, e qualche settimana dopo rispose con una lettera che riconosceva la necessità di non interrompere il dialogo sulla distensione. Ma in essa vi era anche un preciso riferimento: «Gradiremmo au gurarle in modo personale ed umano tanta energia e successo nel superare ogni sorta di difficoltà, le cui cause non sono fa¬ cilmente comprensibili a distanza». L'allusione era chiara. Più o meno in quei giorni il Congresso aveva votato la spesa di un milione di dollari per iniziare il processo di impeachment del presidente in seguito allo scandalo Watergate. Per quanto riguarda la politica estera, occorre riconoscere che una parte dei meriti va a Henry Kissinger, ma una parte soltanto, perché nei momenti critici l'apporto di Nixon fu decisivo. Per quanto riguarda la politica interna i meriti furono tutti di Nixon. Egli riportò ordine nella società e nelle università, travagliate dal 1968, snelli la burocrazia, ridusse il tasso d'inflazione, riuscì a vincere la seconda elezione presidenziale con il 60,7 per cento dei voti, quando già lo scandalo Watergate era noto. Ma che tipo di uomo era Nixon? Certo, nel bene e nel male, un essere fuori del comune. Nonostante le dimissioni a catena dei suoi ministri, culminate con quelle del vicepresidente Agnew accusato di corruzione, nonostante un Congresso ostile, e gli scandali a ripetizione egli riuscì, talvolta con un eccesso di cinismo, a sganciare gli Stati Uniti dall'infausta guerra del Vietnam. Gran parte di queste sue memorie sono dedicate a una difesa del Watergate, che non convince. Come un uomo tanto spregiudicato potesse scivolare sulla classica buccia di banana, rimane un interrogativo per tutti. La chiave c'è ed è forse in questo passo delle sue memorie: «La mia reazione all'incursione nel Watergate fu essenzialmente pratica. Se fu cinica, il mio era un cinismo nato dall'esperienza. Ero da troppo tempo in politica e ne avevo viste di tutti i colori, da tiri mancini a frodi elettorali. Non riuscivo a sentirmi moralmente offeso per un affare di spionaggio politico». Proprio cosi! Enrico Serra