Il triangolo del Mar Giallo di Vittorio Zucconi

Il triangolo del Mar Giallo Sempre più fitto il dialogo Giappone-Cina-Urss Il triangolo del Mar Giallo DAL NOSTRO CORRISPONDENTE TOKYO — L'Oriente che «si tingeva di rosso» nelle illusioni dei maoisti e dei loro adulatori occidentali, somiglia oggi più a un camaleonte che a una bandiera monocroma. I tre Imperi che dominano l'Est, Cina, Urss e Giappone, stanno improvvisamente scoprendo fra paura e necessità, fra missili e yen, l'esigenza di una politica nuova, tutta asiatica, e totalmente «nonideologica». Fra segnali o controsegnali, un dialogo ancora altalenante, ma già rittissimo, è in corso. Le cui ragioni, e i cui esiti, sono molto più vicini all'Europa di quanto il mappamondo farebbe pensare. Avvenuto ormai il «riaggancio» fra Mosca e PeShino, attraverso un negoziato diffidente ma apparentemente irreversibile (si rivedranno in marzo, al Cremlino), i fatti nuovi sono ora sugli altri due lati del «triangolo del Mar Giallo»: fra Urss e Giappone, fra Cina e Giappone. Il gelo post-afghano imposto ai rapporti fra i sovietici e i giapponesi si spezza: a Tokyo c'è in queste ore un ministro di Andropov, Vladimir Kamentsev, per discutere di un problema che può sembrare minore solo a chi dimentichi che cosa mangiano i giapponesi, il pesce. Non solo il ministro russo della pesca è il primo uomo di governo sovietico in Giappone dall'attacco a Kabul. Kamentsev è arrivato con idee ambiziose: ha proposto a Tokyo una «joint venture» per lo sfruttamento comune delle risorse ittiche, una specie di «alleanza di pescatori» a lunga durata, e i giapponesi non l'hanno respinta a prima vista. Certamente qualche intesa uscirà dai colloqui, anche se non impegnativa come vorrebbe Mosca. E ancora: la prossima settimana partirà per il Cremlino l'intera Confinduslria nipponica, guidata dal presidente della Camera di Commercio giapponese Nagano, per cercare agganci con Andropov e il prossimo piano quinquennale. Saranno rappresentate ben 213 industrie, un numero cosi alto, aver spaventato il governo. «Ricordatevi — ha ammonito il primo ministro — che politica ed economia non sono separate e non siamo ancora disposti a riallacciare in pieno le relazioni con l'Urss». Ma il ministro degli Esteri Abe ha ripetuto a Kamentsev l'invito per una visita a Tokyo di Gromyko. Più sottili, persino ambigue, le novità sul lato sinogiapponese del triangolo orientale. Dopo le promesse di «amicizia millenaria» scambiate lo scorso anno fra Deng e Suzuki, i cinesi hanno dato un dispiacere a Tokyo annullando l'ordine per un grosso centro petrolchimico a Daqing dove, al prezzo di 1.800 miliardi di lire, i giapponesi avrebbero dovuto costruire un colosso da 300 mila tonnellate di etilene e 60.00 di glicoletilene, per la fabbricazione di fibre tessili sintetiche. Ma anche se Deng diffida del nuovo governo Nakasone, giudicato troppo vicino a Reagan, la cancellazione del progetto di Daqing, uno dei pilastri della «modernizzazione» industriale, non sembra essere il segnale di un raffreddamento politico radicale. Ieri è partito per Pechino il segretario del partito di governo giapponese, Susumu Nikaido, per «mettere i cinesi al corrente della politica di Nakasone». Il mese prossimo ci saranno consultazioni fra i governi, mentre un viaggio dello stesso Nakasone in Cina è notoriamente in via di allestimento. Non c'è dubbio che lo storico «ghiacciaio d'Oriente» fra Siberia, Manciuria e Stretti di Tsushima sta irresistibilmente crepando, sotto il peso di tre elementi nuovi: innanzitutto la svolta politica cinese, che ha aperto spazi di manovra a tutti, e non solo ai sovietici, inesistenti sia negli anni della subordinazione di Mao al Cremlino, sia nel periodo dello schieramento «anti-egemonista» al fianco di Washington. Poi, la continua crescita industriale del Giappone, ormai traboccata in presenza politica e (in prospettiva) militare, che rende il gigante nipponico il passaggio obbligato di ogni progetto diplomatico o industriale in questo quadrante. Infine, il non tanto sottile allargamento dell'ombra navale e nucleare sovietica verso l'Estremo Oriente, sia attraverso la crescita della presenza nel Pacifico, sia attraverso la minaccia di trasformare gli «euromissili» in «asiamissili» e spostare alcuni «SS 20» dal fronte europeo ai confini con la Cina, nella valle della Silka. Tre Imperi, che per una generazione hanno potuto chiudere i loro rapporti in schemi dialettici elementari o ridurli a semplice «funzione» dei rapporti con altre potenze, si accorgono di non poter più guardare solo all'America o all'Europa, ma di dover cercarsi un futuro «in casa». E gli Usa. abituati a negoziare a una dimensione sola, quella europea, si trovano a dover disegnare una strategia «bidimensionale», infinitamente più complessa. Pechino a Tokyo hanno già detto chiaro e tondo a Reagan che se l'Europa non ha mosso un dito per l'Asia colpita in Afghanistan, certo gli asiatici non hanno nessuna intenzione di «morire per Comiso». Vittorio Zucconi