La svolta di Giolitti

La svolta di Giolitti DAVANTI AL MOVIMENTO OPERAIO La svolta di Giolitti «Io credo c/x nella vita politica italiana sia un difetto gravissimo anelili per il quale non si dà autorità agli uomini se non quando sono giunti al punto di non poter dar più un utile lavoro». Con questa battuta, polemica c divertila, Giovanni Giolitti replicava nel corso del dibattito sulla fiducia al suo governo, il 12 giugno 1906, al repubblicano Eugenio Chiesa, che annunciando il voto contrario del suo gruppo (24 deputati su 508) gli aveva rimproverato, fra l'altro, la giovane età di alcuni ministri («Arrivino pure i giovani al potere. Ma vi sono certe delicatezze che ogni nonio dive sentire o che gli altri devono sentire per lui»). Una critica in realtà più sottile, volta a mettere in luce la scarsa personalità dei ministri prescelti, autentici «gregari» sovrastati dalla figura del presidente del Consiglio. Giolitti, del resto, non ne aveva fatto eccessivo mistero. A chi gli rimproverava di aver protratto inutilmente la crisi di governo aperta dalla caduta di Sonnino (non era forse scontata la successione di Giolitti?), lo statista piemontese rispondeva di aver voluto prima studiare le questioni principali con gli uomini politici ai quali si rivolgeva «per essere sicuro di andare con essi d'accordo»: non ho offerto portafogli, precisava Giolitti, «se non dopo che c'era stato l'accordo su tali questioni», cioè sul suo programma, sulla linea politica che era deciso a seguire. Un governo di programma ante luterani! Giolitti non si fermava alle superficiali e apparenti «comptlenzc»; Gianturco fu chiamato ai Lavori pubblici proprio dopo aver dichiarato in piena assemblea la sua «incompetenza» sul nodo delle ferrovie, allora dipendente da quello storico dicastero. E neanche si arrestava ai «tabù» della estrazione parlamentare: in quell'occasione sceglierà non solo il ministro della Guerra (consuetudine antica), ma anche il sottosegretario al di fuori dei due rami del Parlamento. La verità è che con Giolitti nasce in Italia la figura moderna del presidente del Consiglio: quella che era solo lampeggiata nell'ultimo trentennio del secolo e cui Francesco Crispi aveva piuttosto conferì to il sigillo della legge che non la costanza di una prassi 11 coordinatore della politica dell'esecutivo; non più il pri mus Inter para della tradizione post-risorgimentale, ma l'effettivo punto di riferimento e di accordo di un'azione collegiale adeguata alle esigenze complesse e ormai imprevedibili di una società in movimento. Poche volte Giolitti era stato tanto forte sul piano parlamentare come allora. Abile e tempestivo nello sciogliere la Camera nell'autunno del 1901, all'indomani dello sciopero generale politico che aveva paralizzato il Paese e agitato lo spettro della rivoluzione, Par teficc della svolta neo-liberale aveva tratto profitto dal senti mento di paura che aveva scosso la borghesia conserva tricc, gli astensionisti e gli in differenti. L'avanzata parlamentare dell'estrema sinistra, una costante della vita italiana dopo le follie del '98, subiva una battuta d'arresto, anche per l'intervento dei cattolici, chein alcuni collegi infrangevano l'antico divieto del non expedtt. Pur aumentando, anzi quasi raddoppiando, i voti, a causa del sistema elettorale a collegio uninominale i socialisti vedevano ridotta la rappresentanza alla Camera da 35 a 29 seggi, i repubblicani da 29 a 24. Nelle file multanimi e variegate del mondo liberale i rigidi conservatori alla Sonnino vedevano drasticamente ridotto il loro contingente a Montecitorio a vantaggio dei «ministeriali» giolittiani. «Ministeriali». Una parola che equivaleva a un mondo di ammiccamenti, di reticenze, di prudenze, di contorsionismi e anche di viltà. Giolitti, in fondo, fu il più tadccdcesrmazSttmtspppf«progressista» ira leackrs conservatori dell'assetto risorgimentale, il più avanzato esponente della sinistra liberale con una solida e immutabile radice di destra storica, tutta piemontese e vorremmo dire quiritaria. 11 paradosso è solo apparente. L'età giolittiana, l'età che fu sua, rappresenta il momento di maggiore apertura nell'I- talia contemporanea: apertura alle forze nuove che premono dal basso, un'Italia che rinuncia agli stati d'assedio e dissocia le forze armate dai conflitti di lavoro, un'Italia che prende coscienza delle grandi forze extra-risorgimentali, i socialisti e i cattolici, e tenta di inserirle gradualmente e pacificamente nell'alveo della legalità, al fine di creare una democrazia moderna al posto di uno Stato, fra conventuale e ccnsitario, di notabili. Fino al punto di invitare i socialisti, prima Turati e più tardi liissolati, a entrare nel governo. Pochi statisti europei ai primi del secolo intuirono con la chiarezza di Giolitti il peso e valore del movimento operaio. Naturalmente in quella chiave di «progressismo conservatore» che abbiamo detto. «Nessuno si può illudere, aveva detto nel 1901, di potere impedire clic le classi popolari conquistino la loro parte di influenza economica e di influenza politica... Dipende principalmente da noi, dall'atteggiamento dei partili costituzionali nei rapporti con le classi popolari, che l'avvento di queste ellissi sia una nuova forza con stivatrice, un nuovo elemento di prosperità e di grandezza, o sia invece un turbine che travolga la fortuna della patria». Su quella via si incamminò Giolitti, e l'intero periplo dela sua azione politica e di governo è ripercorso oggi con piena coscienza della svolta storica nel volume di Pratico Gaeta, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, ventunesimo della «Storia d'Italia» per le classiche edizioni dell'Utet, diretta da Giuseppe Galasso. Il recupero delle classi sociali che alimentavano alla fine dell'Ottocento l'opposizio ne dell'estrema fu la grande operazione tentata da Giolitti, e il libro di Gaeta la ricostruisce nelle linee fondamentali, nei suoi complessi aspetti, politici, economici, sociali, culturali. Gaeta è uno storico di formazione di sinistra, ma di una sinistra concreta e prammatica che sa richiamarsi ancora a Nino Valeri (cui è dedicato il libro): non è quindi un caso che si soffermi con particolare attenzione sul tema «cultura». La cultura italiana non capì Giolitti? E' un quesito che emerge da queste pagine, ed è un interrogativo che attende una definitiva risposta. Certo a maggioranza dei movimenti di opinione che si formarono nel primo decennio del secolo si posero tutti in posizione di contestazione della «prosa» giolittiana, di critica del metodo giolittiano. Soprattutto il suo economicismo fu contestato. Ma rimane da domandarsi se esperienze come Im voce di Prezzolali o L'Unità di Salvemini sarebbero state possibili senza il ritorno ai temi concrc ti che caratterizzò complessi vamentc la svolta economica dell'epoca giolittiana. In realtà Giolitti assicurò le basi di svi uppo di una società che si consentì tutte le libertà c tutte le audacie culturali al riparo della sicurezza che il grande statista le garantiva. Rimane un punto da approfondire: il disprezzo dei dati economici, la fuga dai conti. In queste settimane ho po sato gli occhi su una scelta che Benedetto Croce compi durante la prima guerra mon diale, delle lettere di Francesco De Sanctis a Francesco Proto notari, il direttore della Nuova Antologia, che gli corrisponde va duecento franchi a articolo nel lontano 1869. Ebbene: tut ti i riferimenti ai compensi erano regolarmente tagliati da Croce, quasi a significare che l'economia era «anelila» della politica e bisognava parlarne con una punta di riguardo e perfino di pudore. Come il sesso. Forse non saremmo arrivati alla violenza, e alla stessa enfasi declamatoria, del fascismo se l'Italia dell'epoca giolittiana avesse meglio preservato alcuni dei grandi valori del positivismo e del concretismo dell'ultimo tratto del secolo. Probabilmente un certo prezzo fu pagato non alla svolta, ma alla retorica dell'idealismo. Giovanni Spadolini

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