IL PROCESSO DI CAMPANELLA Veglia dell'eretico di Luigi Firpo

Veglia dell'eretico IL PROCESSO DI CAMPANELLA Veglia dell'eretico Stanno per uscire dalla Salerno Editrice gli atti del processo a Tommaso Campanella, raccolti da Luigi Firpo, sotto il titolo Il supplizio di Tommaso Campanella. Pubblichiamo in anteprima gualche pagina dell'introduzione. Al cadere del 1593, accusato di aver disputato con un Israelita convcrtito e tornato poi all'ebraismo, omettendo di denunciarlo senza indugio all'In- 3uisizionc, viene chiuso con ue correi nel carcere del Sant' Uffizio. Ne segui un grosso, processo, aggravato da un ten-' tativo di effrazione e di fuga, complicato da sempre nuovi capi d'imputazione (pratiche divinatorie, credenze materialistiche, linguaggio irriverente), inasprito da reiterate torture e avocato infine, attraverso una misteriosa estradizione clandestina, davanti al tribunale romano. In quel grave frangente Campanella rivela una vitalità incoercibile: scrive memoriali a propria difesa, libri da inviare a protettoti potenti, si guadagna fra gli stessi giudici profonde simpatie per la sua giovinezza infelice e splendente d'ingegno, ma non può alla fine evitare una condanna all' abiura per grave sospetto di eresia. ' Il 16 maggio 1595, nella chiesa di Santa Maria sopra Minerva, si piega all'umiliante cerimonia pubblica, che fa di lui da quel momento un lapsus, una pecora segnata; ma subito dopo, confinato nel convento di Santa Sabina, riprende con lena infaticabile la trama del lavoro, dei contatti umani, delle speranze. In pochi mesi detta cosi una Fisica compendiosa, una severa Poetica moralista, un Dialogo contro ÌMterani, Calvinisti e altri ereti-. ci, aspirando alla piena riabilitazione, all'inserimento attivo delle proprie energie tra le forze che fanno argine sugli spalti della fortezza cattolica contro gli assalti dei riformati, degli scismatici e degli idolatri. • - Ma anche quest'ultimo sforzo di far toccate con mano la sua buona fede intemperante ed entusiastica viene reso vano da un incidente occasionale: nel marzo 1597 un bandito calabrese, nel salire il patibolo in Napoli, per differire l'esecuzione rilascia a suo carico dichiarazioni compromettenti in materia di fede. Così viene gettato daccapo in prigione e vi resta sino al cadete dell'anno, quando è bensì riconosciuto innocente, ma riceve l'ordine — ora davvero perentorio — di tornare in Calabria. Era la fine di una temeraria avventura, il venir meno della grande apertura culturale sognata: ma stavolta, e chissà quanto a malincuore, gli toccò obbedire; sostò a Napoli per un tempo anche più lungo del necessario e finalmente, nel luglio 1598, fece vela alla volta della sua terra, dalla quale mancava da quasi un decennio. L'evasione verso il sapere, la libertà, l'azione, è fallita, ed egli rimpatria sconfitto sotto il peso dell'umiliazione e del castigo, destinato a chiudersi per sempre in un silenzioso isolamento. Si getta invece, a corpo morto, in un'impresa visionaria. Fra turbe di malcontenti, di facinorosi, di illusi, egli reca un messaggio di rivolta; addita nella compagine cosmica prodigi significanti, presagi di immani rivolgimenti imminenti, raccoglie le aspirazioni degli umili, l'antica insofferenza per il giogo spagnolo e feudale, e tesse con ingenuo fervore le trame di una congiura contro l'autorità viccrcalc, mirando a liberare la Calabria e ad erigervi una repubblica comunitaria e teocratica, della quale egli stesso sarebbe stato il legislatore e il capo. * * ': Quando già il complotto aveva raccolto centinaia di aderenti e l'appoggio dei Turchi, due delatori lo rivelarono all'autorità spagnola, che dispose una repressione fulminea. Dopo una breve fuga, Campanella venne tratto in arresto, il 6 novembre 1599, e fu tradotto a Napoli in catene con decine di frati e centinaia di laici complici o compromessi: all'entrare nel porto le galere gremite da quel, triste carico offersero alla folla spettacolo di atroci esecuzioni capitali per ammonire con salu- tare esempio gli insofferenti e i riottosi. Accusato di lesa maestà e di eresia, capo riconosciuto della congiura, Campanella appare sin da principio in situazione disperata: solo i conflitti giurisdizionali fra i tribunali laici ed ecclesiastici e la speranza di estorcergli ampie rivelazioni ed elenchi di complici gli salvano per il momento la vita. Egli pone allora in atto un espediente sottile e fin dal 7 febbraio 1600, sottoposto alla tortura, confessa gran parte delle colpe ascrittegli, per farsi credere incapace di resistere agli strazi. * * ' • Subito dopo, ai primi di aprile, inizia con tenacia ostinatissima una simulazione di pazzia tanto abilmente condotta da lasciar dubbiosi i pur diffidenti giudici; posto a nuova tortura il 18 maggio, la supera senza tradirsi, e per un anno intero, spiato giorno e notte, non dismette mai la finzione eroica cui si affida la sua ultima speranza di vita. Secondo i cànoni, infatti, il pazzo non può essere ucciso, perché non avrebbe modo di pentirsi e l'anima sua sarebbe irreparabilmente perduta, ricadendone la responsabilità sul capo dei giudici che l'hanno mandato a morte; per contro, il savio che non si pente è l'autore unico della propria dannazione. Tra il 4 e 5 giugno si venne alla prova legale risolutiva, il così detto tormento enorme della «veglia». In luogo della rituale mezz'ora, l'imputato doveva restare appeso alla fune con le braccia slogate per ben 40 ore e, quando per il dolore atroce cadeva in deliquio, lo si calava a sedere su un legno tagliente che gli segava la carne delle cosce. Il verbale di quel supplizio, nel suo rozzo dettato cancelleresco misto di latino curiale, d'italiano e di termini dialettali calabresi, non si rilegge senza emozione profonda. Alla prima esortazione a confessare la propria finzione, Campanella rispose con follia poetica: «Dicci cavalli bianchi.'», ma dopo lunghissimo strazio, quando i giudici irridono i suoi lamenti per le atroci sofferenze fisiche, lo esortano a trascurare il corpo ormai perduto e a darsi pensiero invece della salvezza dell'anima, egli risponde con un guizzo di lucida fierezza: «L'anima é immortale.'». Così di ora in ora, nell'alternanza di vaneggiamenti simulati e di consapevolezza agghiacciante, assistiamo a quella lotta di un uomo solo e inerme contro la potenza terrena, il dolore cocente, la fine di ogni speranza. Un lungo giorno, una lunga notte: poi le trombe che suonano la sveglia sulla tolda delle galere ancorate nel porto, le candele che si spengono, il brivido freddo dell'alba che irrompe dalle finestre, e ancora un lungo giorno di sevizie su quel corpo ormai inerte, che più non risponde agli stimoli della sofferenza. Alla fine, gli stessi giudici, sfibrati, ordinano che venga deposto dal tormento e ricondotto alla sua cella. L' aguzzino, divenuto un po' ortopedico per lunga pratica, gli riduce le slogature, lo porta al tavolo del notaio, gli regge la mano inerte per firmare con segno di croce l'atto fotmale che lo qualifica giuridicamente pazzo. Poi se lo reca in collo per riportarlo su chissà quale sordido giaciglio: ma appena oltte la soglia l'indomabile ha come un sussulto e pronuncia — finalmente intoccabile, e perciò rinsavito — una frase triviale e proterva: «Si pensavano che io era coglione, che voleva parlare.'». Due anni dopo, proprio nella chiusa della Città del Sole, per smentire il determinismo degli influssi astrologici scriveva: «Se in quaranta ore di tormento un uomo non si laida dire quel che si risolve tacere, manco le stelle, che inchinano con modi lontani, panno sforzare». * Luigi Firpo , ' 1|| Tommaso Campanella tare esempio gli insofferenti e

Luoghi citati: Calabria, Città Del Sole, Napoli, Salerno