Tuorém, il gallo e il diavolo

Tuorém, il gallo e il diavolo VIAGGIO NEL PORTOGALLO PIÙ' ANTICO E SCONOSCIUTO Tuorém, il gallo e il diavolo Nel parco nazionale portoghese, molti hanno lasciato la montagna -1 rimasti vivono secondo i ritmi lenti di secoli lontani - Pascoli, boschi, campi, il forno sono in comune - Incontro con padre Antonio, prete etnologo - Il gioco del gallo, che espia i peccati d'amore della comunità - Cuocere il pane, un rito PARCO NAZIONALE DEL PORTOGALLO — // villaggio di Tuorém, sugli ottocento metri di quota, all'estremo del Planalto da Murela che penetra in terra spagnola, è abitato da gente antica die sembra scolpita nel legno: vivono con molte cose in comune: i pascoli, i boschi, i campi, il mulino, il forno per cuocere il pane e la meridiana clte da cinquecento anni segna le loro giornate. Sulla terra in comune hanno anche delle piccole costruzioni tutte in granito traforato e sormontate da una croce, sono sollevate un piede da terra su supporli pure in pietra: si chiamano esplguelros, piccoli granai per conservare il mais e proteggerlo dai topi. Questi abitanti vivono con naturalezza accanto a resti preistorici; ma anche le loro case, tutte in pietra grigia e con i tetti di paglia, sembrano non avere età e nate dalla terra. Vi giungiamo una mattina e Manuel Oliveira ha poche parole da dirci perché paesaggio, cose e gente non abbisognano di commenti. Basta guardare. I pascoli e la montagna erano deserti, le rocce affioranti tra la nebbia e la pioggia portavano il tempo; all'improvviso tra verdissimi prati e macchie di querce, ecco Tuorém. Il villaggio sembrava deserto ma a ben guardare si vede il fumo uscire dalle case e le pannocchie di mais appese sotto lo sporto dei tetti. Sulla via principale sopra la porta di una casa a due piani una insegna in lamiera porta scritto: «Snack Bar Madrid-. Forse è il ricordo portato da un emigrante. Da un cortile interno sento battere una scure ed entro passando sotto un arco di pietra. Un vecchio sta spaccando un ceppo, dite vacche rosse dalle bellissime corna stanno ruminando e un vitellino guarda intorno curioso; sulla scala di legno che porta nella casa, un bambino con accanto un cane, come in un dipinto di Jacopo Bassano, guarda il nonno, gli animali e poi sorride a questo straniero. Sulla scala esce una giovane donna; ha le mani rovinate dal lavoro ma il suo viso è dolce. Parlo con il vecchio. Il villaggio ha quattrocento fuochi, fino a vent'anni fa erano otto-dieci abitanti per ogni fuoco, ora sono rimasti in due, il massimo tre, ma anche uno: sono emigrati in Francia, in Spagna, in Germania; le vacche erano mille, sono ora duecento. Il medico viene una volta alla settimana da Montalegre, che dista una trentina di chilometri, e anche il prete viene solo alla domenica. Ma in caso di necessità ora hanno il telefono. Chiedo il permesso di fare qualche fotografia, il vecchio acconsente sorridendo e la donna va a levarsi il grembiule. Quando esco da questo cortile un raggio di sole che rompe le nubi anima il villaggio; escono sulla strada donne e bambini, un pastore dietro il suo gregge risale per la via principale; galline e colombi animano i cortili e gli orti, maestose vacche rosse camminano verso i pascoli. Anche la campagna intorno si illumina e gli alberi esaltano i colori autunnali sullo sfondo dei verdissimi prati. Ma questo dura poco e quando ci rimettiamo in viaggio verso Montalegre la pioggia riprende con forza e mi allontana il desiderio di poter vedere i voli delle pernici e le corse dei conigli selvatici. Non sono venuto per cacciare ma so che «quando piove o tira vento / andare a caccia è perdere tempo». A Montalegre il funzionario del Parco ci lascia per ritornare a Braga e si scusa per linclemenza del tempo che notici fia permesso di vedere gtTanto aveva programmato. Ma. anche cosi era molto bello; forse di più", per il senso di isolamento, di lontananza e di mistero che ci dava la pioggia. Ora con l'amico Mea dell'Istituto italiano di cultura di Oporto andiamo alla Serra do Barroso dove in un villaggio che si chiama Vilar de Perdisez, Luogo delle Pernici, siamo attesi da un singolare prete. Padre Antonio Lourengo Fontes è un etnologo laureato in storia e ha scelto di vivere qui per missione e studio. Il villaggio, a ridosso del confine con la Spagna, è piccolo, antico e povero; le strade sono in terra battuta con qualche tratto di selciato. Qui, nel 1939, hanno trovato rifugio e ospitalità un centinaio di miliziani sfuggiti ai falangisti. La casa di padre Fontes è aperta ma vuota. Un ragazzino svelto viene a dirci che il «signor padre» è a una festa di battesimo, in una casa della periferia. Viene di corsa un altro ragazzino a dirci che anche noi slamo invitati alla festa e che il «signor padre Antonio» ci aspetta li; lui ha l'incarico di accompagnarci. La casa dove ci guida è nuova ma non ancora rifinita; fuori, nel fango, ci sono alcune Mercedes, forse di emigranti o, meglio ancora, di contrabbandieri. Il brindisi Padre Antonio ci viene incontro; è giovane, nero di capelli e scuro di pelle come uno zingaro, gli occhi vivi e allegri; tanta gente é seduta attorno alle tavole imbandite, la piccola battezzata. Elena, dorme su un divano. Forse è radunato qui tutto il villaggio, mancano solo i vecchi. Si brinda, mangiamo con loro il dolce fatto per l'occasione e non mi sento straniero. Dopo, padre Antonio ci accompagna nella sua casa. Un cortile, alberi da frutto, un orto, quattro o cinque arnie rustiche e una razionale; una scala in legno di quercia e, sotto lo sporto, utensili da lavoro e 'impermeabili' di paglia intrecciata che qui indossano per lavorare la terra quando piove. La casa, tutta in blocchi di pietra come le altre del villaggio, sembra l'antro di un intellettuale: ogni piccolo spazio è occupato da libri e riviste; sul tavolo, tra una montagna di carte, si intravede il telefono e in un angolo tra mele renette, peperoni, patate e pomodori un apparecchio per l'ascolto della musica o di nastri. Anche dal soffitto pendono verdure e frutta e, su un palo, qualche capo di biancheria messo ad asciugare. L'architrave che introduce in un'altra stanza dove si trovano il focolare e una panca per giaciglio, porta una iscrizione vecchia di due secoli a dire che questa casa era abitata dai gesuiti. La sedia è una sola e cosi restiamo tutti in piedi. Padre Antonio in questo villaggio ha organizzato incontri e congressi di studio sulla medicina scientifica e popolare, di teatro, di architettura, di folclore, di arte; stampa anche un giornale mensile, Notlcias de Barroso, che viene richiesto e spedito a studiosi di etnologia. Proteste La Bbc ha qui filmato un documentarlo su O Jogo do gaio che si tiene ogni anno l'ultima domenica di carnevale. Questo documentario ha però suscitato aspre polemiche tra i protettori degli animali che ritengono molto crudele questo gioco e padre Antonio ha ricevuto dall'Inghilterra molte proteste. «Ma questo gioco non è crudele», ha ribattuto padre Fontes. «Come padre e pastore di una comunità cattolica posso assicurare che questo gioco non ha niente a che vedere con la violenza e con 11 maltrattamento agli animali. Alla fine del gioco il gallo viene ucciso come tutti 1 polli e regalato al maestro del villaggio». E' come un teatro all'aperto a cui assiste tutto il villaggio e segna l'inizio della quaresima 'rigida, quando viene imposto il digiuno e l'astinenza; ha radici pagano-cristiane e un tempo si faceva in tutta la penisola iberica e in altre regioni d'Europa: «E' anche accompagnato da un sentimento idi libertà e di critica sociale -e- i versi del Testamento del gallo Bono accolti senza recriminazioni o proteste». Il più bel gallo del villaggio viene interrato nella piazza con la testa che gli fuoriesce e gli fanno un processo come capro espiatorio dei peccati amorosi. Un gruppo di giovani recita: «A chi diamo il becco del gallo?». / giudici rispondono: «Sia dato a padre Antonio perché canti bene». «E le unghie a chi le dia¬ mo?». «Alla vedova Maria Cristina perché si difenda». «Il cuore a chi?». «A Mariazinha che è la più bella». «E a chi diamo le ali del gallo?». «A Mariano perché voli dalla sua innamorata». «A chi diamo la cresta del gallo?». «Sia data a Adriano do Moro che è il più superbo». Le budella alla più bisbetica, lo sterco al più maldicente... Su questo gioco e sulla simbologia del gallo nelle religioni padre Fontes ita scritto un saggio e ci dice ridendo: «Quando il gallo canta, fugge il diavolo!». Poi, tenendo in mano un apparecchio collegato con il suo telefono nel caso di chiamate urgenti, ci accompagna per il villaggio. La meta è un vecchio guaritore che con le sue arti è riuscito a guarire da una fastidiosa dermatosi delle ragazze di città che lavoravano in un'industria chimica. Mo passando per la strada mi raggiunge un profumo di farina lievitata e seguendo come un segugio questa traccia mi trovo davanti al Forno do Povo, il forno comune, dove tre donne anziane hanno portato la pasta da cuocere. Il manufatto è tutto in pie, tra, a volta, e ncll'antiforno, sopra un masso di granito, su un lenzuolo di lino sono distese le forme che diventeranno pane per le tre famiglie della contrada che oggi hanno il turno per la cottura. Un uomo è addetto a riscaldare il forno con le fascine; noi assistiamo al rito. Le donne recitano la preghiera: «Per la grazia di Dio e della Madonna / Padre nostro e ave Maria / San Vincenzo ti faccia crescere» (lievitare). Un'altra donna dice: «San Manuele ti lieviti / San Giovanni ti faccia pane / per la grazia di Dio e della Madonna». Dicendo questo fanno tre croci sopra la pasta lievitata che sta per essere messa m forno; a questo punto l'uomo addetto al fuoco controlla il calore esaminando le pareti di cotto, si leva poi il berretto, con la pala da infornare traccia tre segni di croce davanti all'apertura e prega: «Che il pane cresca nel forno / Il bene per tutto il mondo / Pace e salute a ognuno». Mario Rigoni Stcrn

Persone citate: Barroso, Jacopo Bassano, Manuel Oliveira, Maria Cristina, Mario Rigoni, Padre Antonio, Padre Antonio Lourengo Fontes, Vilar