Wojtyla, lo straniero in Vaticano di Ezio Mauro

Wojtyla, lo straniero in Vaticano SEI ANNI DI PONTIFICATO TRA IL CONCILIO E IL DUEMILA Wojtyla, lo straniero in Vaticano «Con lui, la Chiesa si radica in tutte le culture» - Il taglio netto con la politica italiana - Ha chiesto al clero «più coraggio» e autonomia - Anche la Conferenza episcopale ha dovuto imparare a camminare da sola: «Fate voi, siete i vescovi» - Presuli «wojtyliani» nelle diocesi rosse per contrastare un «clima politico e culturale imposto» CITTA' DEL VATICANO — L'ultimo a volere un Papa italiano, dietro le porte chiuse del conclave che poi elesse Karol Wojtyla, fu Enrique y Tarancon, cardinale di Madrid. Oggi ha 77 anni, vive a riposo nella Villa Real di Castelleon, ed ha cambiato idea. «Non ho difficoltà a raccontare perché1— ci spiega —. Allora ritenevo urgente arrivare ad una separazione netta tra 11 Vaticano e le vicende della politica italiana: pensavo che un Papa italiano avrebbe potuto realizzare questo obiettivo più facilmente di uno straniero. E invece, il Papa venuto dalla Polonia ci è riuscito prima, e meglio. Oggi questa separazione è compiuta. La Provvidenza, in quel conclave, ha voluto diversamente da me, ed ha avuto ragione». Chi ha avvicinato Giovanni Paolo II nel primi giorni vissuti alla seconda loggia dei palassi pontifici, ricorda un uomo lontano non solo dal mondo politico italiano, ma da tutta una prassi di diplomazia politica, fatta di tradizioni e di attenzioni. Il Papa chiedeva informazioni ingenue sui leader del governo e dei partiti, anche i più noti, anche i più legati da sempre al Vaticano, persino Andreotti e Fanfani. Una totale assenso di legaini che sembrò siglare, allora, la svolta nata in tempi lon¬ tani, subito dopo la fine del regno dì Papa Pacelli. Nel 1961, un invito a cena a casa di Amintore Fanfani, accettato da monsignor Angelo Dell'Acqua, creò già voci e chiacchiere in Vaticano, tanto che Giovanni XXIII intervenne per chiedergli spiegazioni. Papa Montini, amico di Aldo Moro e assistente ecclesiastico della Fucl, teorissò e visse la fine del collateralismo, assistendo al disimpegno dell'Astone Cattolica e all'impegno su strade diverse delle Adi. Ma la novità rispetto agli Anni Sessanta e Settanta è che oggi il Vaticano è più distante dall'intera Italia, e il Papa è realmente straniero. Il segretario A due cardinali die dopo un mese di pontificato andarono in coppia a suggerirgli di scegliersi un segretario italiano, «perché solo cosi riuscirà a capire 11 contesto in cui deve operare», Wojtyla rispose che non poteva rinunciare all'apporto' di Stanislao Dsiwissc, che già lavorava al suo fianco a Cracovia; ma quando John Magee, il secondo collaboratore, ereditato da Paolo VI, divenne maestro di cerimonia, lo sostituì con uno eairese, Emery Kabongo. Tra i prela¬ ti con cui ha un vero rapporto di amicizia, gli italiani sono rari: dopo sei anni a Roma, l'ospite abituale al suo pranzo la domenica è ancora monsignor Andrze) Deskur, anziano presidente della commissione per le comunicazioni sociali, intimo fin dai tempi della Polonia. L'asse politico-religioso su cui regge il suo pontificato, d'altra parte, scavalca le grandi diocesi italiane e i loro cardinali per saldare la Vienna di Franz Koenlg alla Colonia di Joseph Hoeffner, alla Parigi di Jean-Marie Lustiger, alla Filadelfia di John Krol. La stessa internazionalizsazione della Curia riduce l'influenza del clero italiano sullo Stato e sul governo vaticano. L'ultimo concistoro del 3 febbraio 1983, infine, sembra sanzionare, con i soli 3 cardinoli italiani — tutti «obbligati» — su 18 nuove nomine, la svolta irreversibile legata all'elezione di un Papa che non è cresciuto nei corridoi di un seminario italiano, e per la prima volta da quattro secoli non è espressione dei preti, dei vescovi e dei cardinali di questo Paese. E' un distacco che pesa soprattutto sull'episcopato italiano, abituato da sempre a vedere nel Papa un suo rappresentante diretto, un uomo che parla per conto dei vescovi, nella stessa lingua, perché pensa come loro, nel- la stessa cultura. Paolo VI e con lui il sostituto alla Segreteria di Stato, Giovanni Benelli, governavano direttamente la Conferenza episcopale italiana. Prima che il documento con cui la Cel chiude ogni sua assemblea venisse reso noto, passava una settimana. Lo studiava Benelli, poi lo vedeva Paolo VI, poi se ne parlava con il presidente, per annunciargli eventuali modifiche. Una volta, il cardinale Pellegrino lesse sui giornali un testo completamente diverso da quello che aveva sottoscritto a Roma otto giorni prima. «Da oggi — disse — non firmerò più quel documenti». «La Cel — sorrideva d'altro canto Benelli — è ancora una bambina. Quando sarà adulta camminerà da sola». Oggi i documenti dei vescovi vengono scritti la sera e pubblicati la mattina dopo. Wojtyla vuole che la Cei cammini. Il momento è venuto, ma non per emancipazione, bensì per necessità. La tutela del grande padre italiano non c'è più. C'è un Padre polacco, che chiede anche ai vescovi italiani, come a quelli di qualsiasi altro Paese, di fare il loro mestiere. Ma il mestiere di vescovo non è la stessa cosa in una diocesi polacca e italiana. Ai presuli che nella prima fase del pontificato chiedevano come d'abitudine qualche orientamento in Vaticano in vista delle elezioni in Italia, Wojtyla rispose: «Fate voi, siete voi 1 vescovi». Sorpresa, e qualche inquietudine, nella gerarchia, sorpresa, e qualche insoddisfazione, da parte del Papa. Da un lato, un esercito italiano di 330 vescovi, il 10 per cento dell'intero episcopato mondiale, si accorgeva con disagio che l'identificazione con il nuovo leader della Chiesa — diverso per radici ed esperienze — non era così automatica come in passato, e che dunque il peso delle diocesi italiane sui palassi pontifici si riduceva progressivamente. Dall'altro lato, Karol Wojtyla scopriva che la cattolldssima Italia registrava una frequenza alla messa domenicale di appena il 20 per cento della popolazione, con cadute al 15 per cento nelle grandi città. Il Papa chiedeva più «coraggio» ai vescovi. «La Chiesa — ammoni in un severo discorso ad Assisi, nel marzo 1982 — deve saper contrapporre, In pratica, la sua presenza ai programmi che la vorrebbero eliminare, e renderla assente». A Czestochowa, il cuore spirituale della Polonia, il Papa chiamò accanto a sé il presidente della Cei, Anastasio Ballestrero, e gli mostrò l'immensa folla: «Vede, Eminenza, che Chiesa è questa»? A Roma, quando si riunì il Sinodo dei vescovi sulla famiglia, il Papa ne anticipò In qualche modo la conclusione facendo distribuire ai presuli una pubblicazione su tutto ciò che egli aveva già detto riguardo a tutti i temi che sarebbero stati al centro di quella discussione. Ma ciò che il Papa polacco cercava nella Chiesa italiana, ha creduto di trovarlo, intanto, nella certezza compatta, ostentata, di alcuni «movimenti» ecclesiali, pri ma di tutto Comunione e Liberazione, «con cui aveva stretti rapporti — dice don 'Adam Boniecki, direttore dell'edizione polacca dell'Osservatore romano — fin dagli ultimi cinque anni del suo governo della diocesi di Cracovia». Vede in CI il gesto unito alla parola , quel «coraggio» che chiedeva ai vescovi, la presenza legata alla testimonianza, non scorge ciò che altri settori della Chiesa italiana chiamano «integralismo». Umanésimo «In realtà — ci ha detto il fondatore di Comunione e Liberazione, monsignor Luigi Giussani — basta ricordare le parole che ci ha rivolto il Papa: "Il vostro modo di avvicinare i problemi dell'uomo è molto simile al mio. Anzi, dirò: è lo stesso". C'è un umanesimo del Papa in cui noi ci ritroviamo immediatamente». La «Chiesa dei movimenti», però, è una Chiesa che in Italia genera divisioni e incomprensioni. Giussani ammette che il rapporto «spedale» di CI con il Papa può aver creato problemi con la gerarchia: «Credo di si. Per intempestività in nostri momenti, senz'altro, ma non solo: anche per certe inerzie o resistenze di Ipotesi e di programmi precostltultl». Ma per il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, se la crescita di nuove forme di spiritualità è «positiva», presenta anche pericoli: «E' un fenomeno occasione di tensioni — dice — sospetti, distanze, addirittura di "anatemi" reciproci. L'inclinazione obiettiva, anche se inconsapevole, delle nuove aggregazioni a diventare autosufflclentl può degenerare in "Chiese parallele". Contro questi pericoli, la Chiesa è chiamata a riconciliarsi». Senza macchia Vescovi italiani vicini a CI entrano però nelle nuove nomine di Wojtyla, e non sono fatti isolati: Enrico Manfredini a Bologna al posto di Antonio Poma, e poi Giacomo Biffi al posto dello stesso Manfredini dopo la sua morte; Girolamo Grillo a Civitavecchia, Santo Quadri a Modena, Alessandro Maggiolini a Carpi. Sono le «diocesi rosse» quelle in cui il Papa manda i «wojtiliani» a contrastare «un clima politico e culturale imposto» (come disse nel gennaio '82 ricevendo i vescovi emiliani in visita «ad limino») con il compito di «predicare una religione pura e sema macchia». Nel rapporto a distanza con la politica italiana. Io schema montiniano t rovesciato: dall'affinità culturale con la de, sottaciuta da Paolo VI, alla diversità culturale con il pei, conclamata da Giovanni Paolo II. Forse, senza misurare appieno le differenze tra i comunisti dell'Est e dell'Ovest, tra i regimi del socialismo reale e i partiti della sinistra occidentale, mentre una parte della Chiesa suggerisce una distinzione «tra marxismo stoj .ce e comunismo italiano», < >nne dice monsignor Clemente Riva, vescovo ausiliare di Roma. Ma nella visione «totale» di Wojtyla, l'Italia è un Paese di 60 milioni di abitanti, su 800 milioni di cattolici che abitano la Terra. E' Roma che perde, inevitabilmente, la sua specificità. «Con il Papa che voi italiani chiamate straniero — ci dice Joseph Hoffner, cardinale di Colonia e grande elettore di Wojtyla — la Chiesa si radica in tutte le culture, non soltanto in quella italiana, celtica, europea. Ormai, non è più importante se il Papa è un italiano, un africano o un asiatico. Ciò che conta, è 11 fluido di unità». Si capisce perché, quando ha accompagnato alla porta della sua biblioteca il segretario della democrazia cristiana, Ciriaco De Mita, dopo 75 minuti di colloquio, il Papa polacco lo abbia salutato così: «E' vero, io sono il Primate d'Italia. Ma ormai, più che altro, questa è una carica onorifica». „ , Ezio Mauro Marco Tosatti