Milano, Ursini rischia l'accusa di bancarotta
Milano, Ursini rischia l'accusa di bancarotta Caso liquichimica: cominciato il processo per truffa Milano, Ursini rischia l'accusa di bancarotta MILANO — Si è improvvisamente aggravata ieri mattina in aula la posizione giudiziaria di Raffaele Ursini, uno dei protagonisti della vita economica italiana negli Anni Settanta, e di otto suoi collaboratori imputati di falso in bilancio e truffa. Al termine della prima udienza per l'insolvenza della Liquichimica Biosintesi (di cui Ursini era amministratore nonché, indirettamente, proprietario), il tribunale ha accolto la richiesta del pubblico ministero Giovanni Porqueddu di aprire un supplemento di istruttoria, in base alla quale il reato di falso in bilancio potrebbe trasformarsi in quello assai più grave di bancarotta fraudolenta. Alla decisione di ieri si è arrivati dopo oltre quattro anni di Indagini su fatti avvenuti dieci anni fa: si tratta di un episodio della guerra chimica scatenatasi lo scorso decennio tra gruppi privati e pubblici per il controllo del mercato nazionale: a sostenere i danni di questa lotta, combattuta sulla base di delibere di governo e finanziamenti concessi a tamburo battente, furono proprio gli istituti di credito a medio termine che erogarono i fondi, nonché l'Eni, che alla fine si accollò l'onere di salvare il salvabile. Il caso della Liquichimica Biosintesi di Saline, giunto adesso alla ribalta giudiziaria, è forse il più emblematico tra quelli verificatisi: agli Inizi degli Anni Settanta si accese anche in Italia la corsa alle bioproteine, un derivato dalla fermentazione di alcuni ceppi di spore messi in coltura in un bagno di normalparaffine. Le bioproteine dove vano venire utilizzate come mangime per l'allevamento degli animali. Insomma, si voleva arrivare alla bistecca dal petrolio. In Italia due gruppi si con tesero il prodotto: la Liquigas di Raffaele Ursini. che utilizzava il brevetto della giapponese Kanegafuki (per altro abbandonato in Giappone per problemi di Inquinamento) e l'Eni, che si appoggiava alla tecnologia della British Petroleum. Sorsero dunque due impianti, quello della Liquichimica a Saline di Reggio Calabria e quello dell'Eni a Sarroch. in Sardegna. Il comportamento del governo fu ambiguo: se da una parte, cioè dai ministeri dell'Industria e del Mezzogiorno, venivano esercitate pressioni sugli istituti a medio termine perché concedessero i finanziamenti necessari (alla Liquichimica furono erogati complessivamente oltre 240 miliardi dell'epoca, oltre mille miliardi di oggi) dall'altra, cioè dal ministero della Sanità, non fu mai concessa l'autorizzazione a produrre bioproteine se non su scala sperimentale. Quando alla fine il governo si pronunciò per il no, gli impianti di Saline e di Sarroch conclusero la loro esistenza o marcendo corrosi dalla salsedine oppure svenduti a prezzo di rottame. Le indagini giudiziarie aperte sulla Liquichimica accertarono che parte dei capitali affluiti alla società per dare avvio alla costruzione degli impianti fu in effetti dirottata sulla casa madre, la Liquigas, che li utilizzò per scopi diversi da quelli previsti. Proprio per questo fatto, nel '78, Ursini fini in carcere per due mesi per ordine del sostituto procuratore di Reggio Calabria Guido Papalìa, e poi rimesso in libertà Gianfranco Mortolo
Persone citate: Giovanni Porqueddu, Raffaele Ursini, Ursini
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