Pittori fra il vulcano e la rivolta

Pittori fra il vulcano e la rivolta UNA MOSTRA COLOSSALE RACCONTA IL '600 NAPOLETANO Pittori fra il vulcano e la rivolta A Capodimonte cinquecento dipinti, marmi, bronzi, argenti e mobili • Testimoniano fasti e lutti del tempo in cui Napoli era, dopo Parigi, la seconda città d'Europa - L'eruzione del Vesuvio, la rivolta di Masaniello e la peste come grandi spettacoli - Dalle tenebre di Caravaggio e di Ribera agli splendori di Luca Giordano - Ma le chiese che contenevano questi tesori oggi sono in rovina NAPOLI — Sulla base dell' esperienza del 1980 con la Civiltà del '700 a Napoli e sulla struttura portante dell'antologia di grandi opere che nel 1982-83 ha spiegato alle folle di Londra, Washington, Parigi e T'orino la pittura a Napoli da Caravaggio a Luca Giordano, il sovrintendente Raffaello Causa, scomparso improvvisamente pochi mesi fa, ha lasciato come ultima eredità alla sua città la colossale mostra Civiltà del Seicento a Napoli (Capodimonte, fino al 14 aprile). Sono quasi 300 dipinti — comprese le -nature morte», la cui sezione sarà aperta a Villa Pignatelli dal 6 dicembre —, un centinaio di disegni, per la maggior parte di collezioni estere, una quarantina di marmi, bromi, argenti, e inoltre mobili (soprattutto stipi in ebano e avorio), oggetti d'arredajnento, stoffe preziose, libri illustrati. Giuseppe Galasso, inaugurando nel ricordo di Causa la rassegna, ha parlato di speranza, di riscatto, di una memoria storica che possa giovare alla riaggregazione del tessuto sociale ed economico. E' un augurio che tenta di gettare un ponte fra questo concentramento di grande pittura densa di umori realistici e patetici, di opulenze materiali, fra queste coinvolgenti cronache visive della seconda città d'Europa, dopo Parigi, che alimentò una fluviale produzione artistica religiosa e profana prendendo a soggetto anche l'eruzione, la peste, la sommossa, e un' attualità disgregata, subito evidente fuori del muro che cinge il «bosco di Poggioreale-; evidente soprattutto nelle innumeri chiese e oratori puntellati, abbandonati, assediati dai rifiuti, esposti a ogni rapina. Sentimenti contraddittori insorgono di fronte alle tappe del grande spettacolo, interrotto dai bellissimi effetti di regìa delle -sale nere- dedicate all'eruzione del Vesuvio nel 1631, a Masaniello, alla peste del 1656, e dai concentramenti, veri trofei, di argenti, di maioliche, di legni colorati: compiacimento per gli abbondanti recuperi, rivelazioni, restauri di un enorme patrimonio pubblico (e in non piccola misura privato, da Napoli all'Inghilterra); ma assillante ricordo di quel gran corpo degradato e rapinato ch'è oggi Napoli e il territorio circostante. Al supplizio E' indubbio che solo una tale abbondanza qualitativa e quantitativa di materiali, di ogni tecnica e genere, poteva veramente far rivivere e sentire a ogni livello di pubblico e di conoscenza una -ctviltà-, fra il -secolo d'orospagnolo e le svariate realtà del '600 italiano, che volle affidare alle arti visii>e il compito di esprimere, con un'intensità e a un livello die forse nessun'altra città può vantare nel secolo, le luci e le ombre del proprio volto e della propria vita, nobile e plebea. 'C'è un quadro emblematico in mostra, la veduta del Tribunale della Vicaria attribuita al -generista- Carlo Coppola: fra l'indifferenza della folla di scabini e di popolani, fra carrozze e portantine, usando la carrucola affissa alla torre del tribunale, si sta dando corso al supplizio dei tratti di corda; della stessa realtà quotidiana fanno parte i banchetti di commestibili alla base del palazzo, ma anche, accanto a essi, la -mostra» all'aria aperta di quadri in vendita, ritratti e tele maggiori, presumibilmente di soggetto religioso. La pittura, la fluviale pittura dèi '600 napoletano, nella grande dimensione della pala sacra e del quadrone profano da salone, nella piccola e media del -genere-, è nel contempo ossatura e pedale di fondo della rassegna. Lo preannuncia la trionfale sala d'accesso della mostra, introdotta da due bronzei angeli volanti dai Ss. Apostoli, del carrarese Andrea Bolgl approdato a Napoli dalla bottega romana del Bernini: fanno corona alle Sette opere di misericordia del Caravaggio grandi pale di Battistello, del Ribera, dello Stanzione, di Luca Giordano. E' una sintesi dell'intero percorso -maggiore- della mostra: dall'esplodere del naturalismo imposto dal passaggio del Caravaggio e un decennio dopo dall'approdo del Ribera da Roma, ai fasti e preziosità barocchi nascenti dall'arrivo di opere del Reni e dai soggiorni di Lanfranco e Domenlchino; fino ai maturi e compositi approdi, dopo la tabula rasa della peste del 1656, del breve ma fondamentale soggiorno di Mattia Preti fra Roma e Malta e della fluviale fecondità fra Italia e Spagna di Luca Giordano, sempre accentrata sulla natia Napoli. Pur con le anche recentissime novità e approfondimenti (di opere e personalità rivelate, di nodi critici e filologici approfonditi) di cui la mostra è generosa, mi sembra che continui a reggere, in significato e qualità, la tradizionale immagine di una fonda vocazione allo spessore, òlla concretezza di forme, luci, materia -naturale-. Per questo rimane particolarmente coinvolgente l'ampia scelta dedicata a Battistello, al Ribera (di cui sono giunti capolavori assoluti come il Ragazzo con vaso di fiori del Museo di Oslo o l'agghiacciante Storpio del Louvre), pur con i suoi limiti di -maniera- e accademia della brutalità, che attingono però al -sublime- surreale nell' enorme Issione del Prado. Affascina questa vocazione di fondo in colui che era già stato la più bella rivelazione della mostra itinerante, il «Maestro dell'Annuncio ai pastori-, già identificato in anni lontani dal Mayer e — con alto e giusto pregio — dai Longhi con l'allievo del Ribera, Bartolomeo Passante; nell'imposizione di un' inedita severità, dall'immagine di 6. Carlo Borromeo, alto stupendo S. Gennaro nell'anfiteatro di Artemisia Gentileschi, gemello dei santi camaldolesi dipinti dall'altro caravaggesco Antiveduto Gramatica nell'eremo napoletano. La stessa vocazione dà frutti succosi, pur attraverso le novità barocche bolognesi e neovenete, nello Stanzione, di cui sono giunte dal Prado due Storie del Battista già al Buen Retiro, e in Francesco Fracanzano, di cui il restauro ha recuperato lo splendore materico e cromatico delle due Storie di S. Gregorio Armeno della chiesa omonima. Un tesoro E innerva l'arte di -minori-, dal Vitale al Sellato al Fìnoglio attivi, oltre che a Napoli, nel vasto Vicereame, fino al siciliano Pietro Novelli, ai quali la mostra offre giusto spazio. Proprio per questo, pur nella sua novità, appare più fragile la presenza di altri minori, come il De Bellis e lo Spinelli (in massima parte con opere private), in misura minore o maggiore più propensi all'accademia classico-barocca. La cesura o svolta verso questo altro volto del '600 è ottimamente rappresentata, per i suol connotati pur sempre intrinsecamente partenopei, dalla parziale ricostruzione dei fasti della cappella del Tesoro di S. Gennaro in Duomo, con le pale su rame — credo le più grandi al mondo — del Domenlchino, dello Stanzione e dello stesso Ribera, mai così •chiaro- nella lucentezza della lastra di rame argentato; e i grandi santi in bronzo del bergamasco Cosimo Fan- eago, del carrarese Giuliano Finelli e del grande bronzista autoctono Gian Domenico Vinaccia. In parallelo, nella città di cui danno topografie spettrali i francesi Didier Barra e Francois de Nome e stupende visioni architettoniche fra cronaca e fantasia il bergamasco Viviano Codazzi (una delle presenze più fascinose), nasce, oltre alla natura morta su cui si dovrà tornare a tempo debito, la cronaca minuta e tumultuosa del -genere-: verità di fatti e di storie, di rivolte e di lutti, quale nessun'altra città ancora conosce, battaglie tipizzate, ma anche bizzarri trionfi dell' antica Roma e sadismi pittorici di santi martirizzati. Baldacchini Di bella qualità è la pittura di Aniello Falcone e di Andrea da Lione, compagni di lavoro (con singolari divergenze in catalogo fra diversi estensori di schede), più corriva, ma di eccezionale valore cronistorico con un'immediatezza di reazione quale non si vedrà più fino alla ca¬ duta della Bastiglia, quella di Domenico Gargiulo detto Micco Spadaro: tutti fanno parte, se si dà fede allo storico De Dominici, di una •Compagnia della Morte • raccolto intorno a Tommaso Aniello nel dieci giorni del suo capitanato. Le opere più valide del Gargiulo evocano, in presa diretta o ex voto, la peste del 1656. Dopo, anche se si deve tener conto di ciò che osserva nell'introduzione al catalogo Nicola Spinosa (cui va il merito di aver proseguito e concluso l'impresa di Causa) sulla necessità di ulteriori approfondimenti di conoscenza e di studio, e a parte lo stupendo nucleo di Mattia Preti e la bella antologia di Luca Giordano, Il gran vento pittorico si illanguidisce. Risplendono invece argenti e arredi, i capolavori di L'orenzo Vaccaro (l'opulenza plastica e materica del Paliotto della Vergine delle Grazie da S. Maria la Nova, del 1689), l preziosi modelli incisi di Orazio Scoppa, l'indicibile sontuosità del letto a baldacchino in legno dorato ancora oggi in casa d'Avalos. Marco Rosei Tre opere esposte a Capodimonte. Da sinistra: Andrea Vaccaro «Paliotto in argento » (pari.); Viviano Codazzi, «Veduta di ville a Napoli»; Artemisia Gentileschi, «San Gennaro nell'Anfiteatro) (pari.