Eppur si muove l'impero dell'Est di Arrigo Levi

Eppur si muove l'impero dell'Est Quale politica deve fare l'Occidente verso i Paesi satelliti di Mosca? La risposta del Gruppo di Royaumont Eppur si muove l'impero dell'Est Finora l'Ostpolitik europea' è risultata inefficace e a volte frustrante (i niet di Mosca ai viaggi di Honecker e Zhivkov in Germania ne sono l'ultima conferma) - Ma i fallimenti non devono scoraggiare: anche Reagan, dopo aver flirtato con la nuova guerra fredda, ha dovuto ripiegare sulla strategia del negoziato - Come lavorare per la «ottomanizzazione >> del mondo comunista Che politica deve fare l'Occidente verso i Paesi dell'Europa Orientale, i satelliti (più 0 meno tali, secondo i casi) dell'Unione Sovietica? L'Istituto Atlantico per gli Affari Internazionali di Parigi ha cercato una risposta a questo interrogativo attraverso una ricerca cui hanno partecipato studiosi di diversi Paesi, ciascuno dei quali ha trattato un aspetto del problema. I testi preliminari sono stati discussi in un «seminario» che si è tenuto negli storici ambienti dell'Abbazia di Royaumont, presso Parigi, con la partecipazione di una trentina di specialisti. Le tre giornate di discussione sono state appassionanti, ma anche frustranti, per la difficoltà di definire quella che dovrebbe essere la nuova «Ostpolitik» dei Paesi occidentali. Il recentissimo divieto di Mosca ai viaggi a Bonn di Honecker e Zhivkov fa sorgere il dubbio se meriti continuare a sforzarsi di percorrere le strade della «jjìccola distensione» tra i Paesi europei dell'Ovest e dell'Est. Se Mosca ha tanta paura di questi sviluppi, che suscitano più inquietudine e instabilita tra 1 suoi «satelliti», anche i più fedeli come Germania Est e Bulgaria, di quanto non provochino divisioni tra l'Europa e l'America, possono l'Italia e la Germania, la Francia e la Gran Bretagna, sperare di adottare iniziative di «Ostpolitik» davvero efficaci? A un quesito come questo — come a molti altri analoghi — non è ovviamente possibile dare una risposta categorica. Ma l'opinione dominante del «Gruppo di Royaumont» è stata che bisogna continuare a provare. Ha detto l'inglese Philip Windsor (sintetizzo un ragionamento assai più largo): «Noi abbiamo dì fronte Paesi che hanno molto sofferto: nanismo, comunismo, guerre, epurazioni, rivoluzioni fallite, indipendenza perduta. Ma essi si sforzano, come possono, di affermare la loro identità storica e le loro tradizioni. Noi dobbiamo aiutarli in questo, e provare per loro dell'ammirazione; dobbiamo perciò incoraggiare l'Urss ad ammettere ette è per essa legittimo proteggere i suoi interessi di sicurezza, ma che questo può farlo, anche meglio di ora, riconoscendo la necessità di un'evoluzione politica di questi Paesi, secondo la volontà dei popoli. Per fare questa politica l'Occidente deve però dar prova di grande pazienza, sapendo che le cose andranno per le lunghe; e non deve scoraggiarsi per i fallimenti e i passi indietro». Questa argomentazione, largamente condivisa, e che in qualche modo può essere presentata come espressione del «consenso» della maggioranza dei presenti, è stata un punto d'arrivo molto discusso e da taluni contestato. Tuttavia, la strategia opposta della rottura tra Est e Ovest e del «tanto peggio tanto meglio», con il fine di inasprire le contraddizioni interne dell'impero sovietico e del sistema co- munista, non è stata seriamente proposta da nessuno. L'analisi a molte voci (eccellenti gli studi sui diversi Paesi satelliti di Jim Brown, Stephen Larrabee e Christoph Royen) prendeva l'avvio da uno studio storico-ideologico di René Herrmann al quale si sarebbe potuto dare il titolo: «La distensione, prima e dopo». L'essenza della politica di distensione, come della «Ostpolitik» di Brandt, era di favorire un profondo cambiamento delle società, comuniste attraverso una politica di «avvicinamento» e di accettazione dello status quo: nulla doveva cambiare, perché tutto, un giorno, potesse cambiare, in un'Europa «riunificata», nella quale sarebbe finalmente divenuta possibile anche la riunificazione della Germania. Da parte americana, Nixon e Kissinger aggiunsero a questo disegno politico di lungo termine, che condividevano (per Sonnenfcldt la distensione era una «forward potici/», una politica attiva, di movimento), il quadro dei grandi accordi strategici, che dovevano propiziare l'evoluzione sociale, economica e politica dell'.impero sovietico», verso la tolleranza e la riconciliazione. Tramontato questo quadro (le cause furono diverse, ma quelle determinanti rimangono tre: l'invasione sovietica dell'Afghanistan, il veto posto alla democratizzazione della Polonia, e gli SS-20; tutte cose accadute prima di Reagan), l'Occidente è rimasto pressoché privo di una strategia politica generale verso l'Est europeo. L'America di Reagan ha flirtato con l'idea di capovolgere la politica della distensione, puntando a una nuova guerra fredda e all'esasperazione della corsa agli armamenti, nella speranza di far cosi esplodere le contraddizioni interne sovietiche; ma di fatto non ha mal veramente adottato questa strategia e ha anzi finito per riproporre una nuova versione, corretta, della vecchia lìnea del negoziato. L'ascesa alla Casa Bianca di un «radicale di destra» è stata cosi assorbita, tutto sommato, con danni limitati, ed è probabile che il «secondo Reagan», se sarà rieletto, insisterà su questa nuova linea: i segni che l'Urss finirà presto o tardi per uscire dal suo sdegnoso rifiuto sembrano significativi. Quanto all'Europa, essa non ha mai abbandonato la politica delia distensione, anche se con pochi effetti pratici: ma questa «piccola distensione» ha almeno contribuito a rafforzare gli stessi governi occidentali durante la difficile crisi degli euromissili, e ha per di più stimolato istinti indipendentisti nell'Europa Orientale. D'altra parte, il rischio contrapposto che ciò provocasse, una spaccatura tra l'America «duro» e l'Europa «molle» non si è in realtà realizzato, 'nonostante le manovre sovietiche In tal senso, peraltro non sempre accorte. Fermando la «piccola distensione», giudicata improduttiva e anzi pericolosa, Mosca sembra indicare che ha minori speranze di riuscire a dividere l'Occidente; e questo, forse, spiega anche Gromyko alla Casa Bianca. Ma se questo è vero, non c'è alternativa, per l'Occidente, a una «nuova distensione», più garantita e più guardinga della precedente, ma non molto dissimile nei suoi principi ispiratori. Questa conclusione poggia su alcune articolate valutazioni (tra loro in parte contraddittorie: la realtà è complicata). Anzitutto, l'analisi del quadro euro-orientale, Paese per Paese, con la crisi polacca ancora del tutto aperta, la Germania Est e la Bulgaria più autonome, la Romania sempre dissidente, l'Ungheria sempre sulla difficile via della riforma, la Cecoslovacchia «più russa dei russi» (e la Jugoslavia in crisi), conduce alla conclusione (Larrabee) che l'Europa Orientale sarà probabilmente, nel prossimo decennio, «un'area di crescente instabilità». Ciò a causa del declino economico (anche dell'Urss), come pure del non lontani cambiamenti di leadership in Urss, Ungheria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Bulgaria, tutti Paesi governati da ultrasetlantcnni. Ma è soprattutto la stessa ricerca di legittimazione dei capi est-europei che impone loro (pur senza rinunciare alla garanzia finale sovietica) di coltivare un certo spirito d'autonomia, per divenire meno impopolari, o più popolari. «Non diminuisce, ma cresce (Schopflin) la tensione fondamentale fra le rigidità del sistema politico e le profonde aspirazioni delle nazioni e dei popoli». A questo dato di fondo si contrappone però il fatto che l'Urss non rinuncia ad esercitare il pieno controllo sui Paesi dell'Est, sia per ragioni strategiche, sia per motivi ideologici: perdere un «satellite» europeo distruggerebbe la credibilità dell'Urss e del comunismo sovietico nel mondo. E Mosca ha dimostrato di possedere tutti gli strumenti di controllo, partitici,'polizieschi, e finalmente militari, per impedire che un Paese satellite lasci li comunismo e si separi dal sistema imperiale (Breznev disse a Dubcek che era disposto a rischiare la terza guerra mondiale, pur di non cedere la Cecoslovacchia). Il «caso polacco», sempre aperto, dimostra tuttavia che anche il «controllo militare» non può essere usato da Mosca alla leggera: Walesa è libero, Dubcek no. E i controlli partitici e polizieschi sono più volte saltati. Se, quindi, è vero che ci si trova nella classica situazione di una «forza irresistibile» che urta contro un «oggetto irremovibile», la conclusione a cut giungere deve essere un'altra; come si è detto a Royaumont, si applica all'Est europeo il detto galileiano: •Eppur si muove»; nonostante tutto, dice Kurt Gasteiger, •there uAll be change, ttiere is cliange». E' questo cambiamento che l'Occidente, con una prudente ma insistente politica di «nuova distensione», si propone di favorire. E' vero che nel momenti di crisi acuta l'Occidente non può intervenire per. sostenere i protagonisti del cambiamento: ma è un fatto che l'Occidente influisce sull'Est europeo, più ancora che con le sue politiche, con la sua stessa esistenza (Flora Lewis), continuando ad essere, nonostante le sue crisi, un ambito modello di benessere, di civiltà, di libertà. Anche se il quadro del prossimo avvenire è problematico e contraddittorio, bisogna continuare a lavorare per la «ottomanizzazione» dell'Impero Sovietico (Philip Windsor), per la concessione cioè di maggiori autonomie alle province, come metodo che s'imponga agli stessi sovietici, salve le loro esigenze di sicurezza, per ridurre le tensioni politiche, E poi: è possibile pensare davvero che l'Unione Sovietica non camblerà mai? Non sono certo diminuite, anzi sono cresciute, nel pur stabile sistema di «neo-stalinismo burocratico», le forti contraddizioni e ragioni di crisi che già Kruscev aveva denunciato; e che anche l'attuale gruppo dirigente di stanchi settuagenari dà segno di non potere per sempre Ignorare. Arrigo Levi