L'inverno del professor Saul Bellow di Lietta Tornabuoni

L'inverno del professor Saul Bellow IL MAGGIORE SCRITTORE AMERICANO HA QUASI SETTANTANNI ED E' CAMBIATO L'inverno del professor Saul Bellow Ha mutato stile: «Oggi la gente non si avvicina più ai libri con calma: è impaziente, ha bisogno di pensieri veloci, di cose pungenti e condensate» - Nella grande macchina mondiale della celebrità «non ti senti più un romanziere, diventi un animale mitico, una salamandra» - Gli intellettuali al potere: «Carrieristi, arroganti ideologhi folli» - H lavoro dello scrittore: «Rimuovere le banalità» ROMA — Alla fine del breve viaggio in Italia che l'ha sballottato tra premi, agguati, alberghi sproporzionatamente lussuosi, pasticci, pettegolezzi, equivoci, commedianti e cialtronerie, Saul Bellow non se la prende: «E' stato divertente. Buffo». > // maggiore narratore americano è bianco e affascinante, piccolo e roseo, infinitamente amabile ed elegante. Il suo humor sarcastico, il suo catastrofismo aspro sembrano placati in ironia indulgente, in quieto pessimismo. Dopo i grandi romanzi molto amati nel mondo e premiati anche col Nobel (Herzog, Le avventure di Augic March, La vittima. Il re della pioggia, La resa dei conti, Il pianeta di Mr. Sammlcr), gli ultimi suoi libri sono un breve pamphlet spietato contro la tetra burocrazia dell'Europa orientale come contro la torva dissoluzione della vita americana, e una raccolta di racconti bellissimi. Le sue invettive d'artista conservatore contro la politica e la cultura contemporanee si mutano spesso nei discorsi sull'anima e sull'umanità prediletti dagli intellettuali russi. E' nato a Quebec da una famiglia di ebrei russi immigrati, è cresciuto «in una comunità di parenti che parlavano tutte le lingue», ha vissuto in Canada un'infanzia «da frontiera, da ghetto polacco, da Medioevo». Si è laureato a Chicago in antropologia, ha viaggiato «in almeno duecento posti del mondo», ha avuto tre figli da tre mogli diverse e adesso è sposato con la quarta, Alexandra, studiosa e docente di matematiche. Per vivere seguita a preferire Chicago, «dove posso travestirmi da professore d'inglese», piuttosto che New York, «sempre più simile a Salonicco o a Napoli». E' convinto che «tenersi da parte sia ormai diventato un dovere sociale» e che la perdita del senso di individualità sia «terribilmente pericolosa», ma pare pervaso da un sentimento pacificato, da una nuova saggezza e levità. Il narratore d'un presente visto come giostra cemeteriale di violenza e disgregazione, lunaticità sociale e sessuale, caos quotidiano e paradosso, ha quasi settant'anni. E' cambiato: sentiamo come, perché. — Il suo stile è cambiato. Perché? «Lo scrittore è una specie di medium intellettuale, e deve cercale di capire gli umori della gente, di indovinare come funzionano le teste c le coscienze: mi è parso che adesso fosse necessario un nuovo tipo di comunicazione. Uno stile più rapido, che cerchi però di conservare nessi e passaggi, che diventi una conversazione intima e comica con lettori dai riflessi svelti. Rileggendo L'interpretazione dei sogni di Freud, sono ogni volta sorpreso dalla calma, dall'agio, dalla ricchezza di tempo che un medico indaffarato aveva nel 1900 per analiizare e interpretare i sogni. Oggi la gente non si avvicina più ai libri con calma, con animo aperto e disponibile: è invece molto impaziente, ha bisogno di pensieri veloci, di cose pungenti e condensate. Anch'io, in fondo, sono cosi. E' un mutamento che nasce dalla crisi moderna e dai parassiti che l'abitano nutrendosene: i "media", gli uomini pubblici, anche gli intellettuali. Sono i profeti e i demagoghi della crisi, la usano, fanno carriera nelle acque basse e torbide della natura umana». — Non era piuttosto lei a venir definii» un profeta del presente nero, un oracolo di catastrofe? «Le catastrofi non hanno bisogno di alcun oracolo. Sono presenti, esistono, stanno sotto i nostri occhi: nel corso della mia vita, ad esempio, io ho visto le grandi città americane corrodersi, disfarsi, imputridire, crollare. La cosa strana 6 che ci sia oggi un misterioso miscuglio di disastri, barbarie, e alta sensibilità intellettuale». — E' cambiato anche il suo modo di lavorare? «Sì, è cambiato. Adesso mi porto dentro a lungo idee, soggetti, sensazioni, progetti, e non scrivo una sòia parola sinché non li sento perfettamente maturi. Ho un bel posto per lavorare, una casa sulla spiaggia davanti al Lago Michigan. Scrivo a mano, su un quaderno a quadretti da scuola elementare; poi apro il quaderno su un leggio da musica posto accanto a una macchina per scrivere elettrica di model- lo vecchissimo, e riscrivo. La-, voro dal mattino presto, con molto caffo forte c sinché non Sono esausto. Mi piace il silenzio, ma se dall'esterno viene troppo rumore ricorro alla musica per non sentirlo. Sono sopravvissuto a parecchi "editors" della mia casa editrice: adesso che sono diventato vecchio, saggio e importante, non pretendono più di darmi ordini o consigli, sono intimiditi, mi lasciano fare da solo. Leggo poco le recensioni ai mici libri: un'occhiata ogni tanto, ma come uno psicologo che esamini un test. Alla vendita dei libri non m'interesso: sono slato anche poverissimo, ades¬ so non sono ricco ma posso permettermi il grande lusso di non pensare ai soldi». — I/e piace essere famoso nel mondo? «La macchina americana della celebrità 6 tanto enorme da diventare inumana. Nessuno può prcndcrra-sul •serio, ma non ti senti più uno scrittore: diventi un animale mitico, una salamandra che vive tra le fiamme». — Le capita di provare stanchezza o insofferenza per se stesso, per il suo stile, per i temi della sua letteratura? «Quando ho preso il Premio Nobel ho avuto momenti di ansia profonda: gli scrittori che lo vincono hanno spesso l'impressione di ricevere un premio d'addio, incoronazione e insieme segno di fine. Anche se non ti sei mai lasciato andare a superstizioni simili, non puoi fare a meno di avere dubbi.su Jo. stesso'»''.' ■ — -DA suo Prèmio Nobel sono passati otto anni. Adesso? «A volte provo una grande noia di me stesso: naturalmente, mi preferisco sempre agli scrittori smaniosi di gettarsi nelle mode e nell'avanguardia, preoccupati di restare nella storia della letteratura molto più che di esprimersi e di fare il proprio lavoro. A volte penso a me stesso come a un nodo gordiano che debba essere sciolto: mi sento come se avessi un doppio, come se il Bellow buono fosse stato tradito dal Bellow cattivo. Ma uno scrittore lo sa, quando scrive bene: degli ultimi due libri sono contento, c si che a questi appuntamenti tutti mi aspettavano con il bastone levato. Spero che il prossimo romanzo sarà qualcosa di completamente nuovo, spero che riuscirò a liberare la parte negletta di me, il Bellow buono». — Sarà ancora un libro su un intellettuale, sugli intellettuali? «Fatalmente, inevitabilmente. Con immodestia, devo dire che su questo tema sono stato un pioniere americano. Non era facile. Negli Stati Uniti la tradizione 6 populista, per gli intellettuali si hanno forti sospetti e robusti snobismi: con ragione, perché in questo secolo gli intellettuali, come gruppo sociale, certo non sono stati granché. Il record appartiene al presidente Woodrow Wilson, un intellettuale di professione di cui la gente, giustamente, non si fidava. Un altro record appartiene a quegli intellettuali della maggioranza protestante, come Henry Adams e altri, che guardavano con orrore e disprezzo l'avvento e l'infittirsi degli immigrati negli Stati Uniti. Scegliere protagonisti intellettuali e raccontarli ha quindi rappresentato per me una sfida: c'erano da superare questi pregiudizi collcttivi. Sfida doppia, perché anch'io avevo le mie ragioni per non amare gli intellettuali approdati dal mondo accademico o scientifico al potere politico e alle sue arroganze: carrieristi, opportunisti, ideologhi folli. Soprattutto quando sono "managers" dei "media", creatori della pubblica opinione: in una democrazia, il massimo potere appartiene a quelli che fanno l'opinione pubblica, ed e anche il potere più incontrollato, più irresponsabile». — Non possiede anche lei un potere magari meno diretto, ma analogo? «Io posso avere sperato di incidere sulle coscienze, ma non ho mai creduto di poter determinare o controllare gli eventi. Dal 1917 della rivoluzione russa, gli intellettuali sono intossicati dall'ambizione politica c dall'utopia sociale, dal pensiero titanico d'avere il potere e di riuscire a modificare il mondo. Io non ci ho neppure mai pensato». — Le capita spesso di pensare al passato, alla sua infanzia, alla giovinezza? Ci pensa con affetto, con nostalgia, con rimorso? «Ci penso molto. Con sentimenti misti, ma molto. Ho una memoria lineare, vivida e senza vuoti della mia lunga vita. Involontariamente, continua¬ mente, vengo visitato da persone, affetti, sensazioni del passato. Se nel corso del tempo ho imparato qualcosa, è a riconoscere un errore che facciamo tutti: considerare l'esistenza un fatto garantito, scontato. Non si può dare per inteso il miracolo di vivere: neanche quando la vita è troppo volgare». — lx> è? E come si difende lei dalla volgarità? «Passo fin troppo tempo a difendermi, e questo forse è un errore. Forse non si dovrebbe essere cosi fragili e schizzinosi. Forse la sensibilità dell'artista si 6 esasperata e rarefatta per reazione alla banalizzazione tipica del nostro tempo. Forse 6 un'alterazione, in una società dall'orientamento tutto pratico e concreto. Penso a Proust, quando scrive nella Recherche che, traversando Place de la Concorde nel tramonto d'un giorno d'estate, vede l'obelisco come un torrone color rosa: che uso si può fare di un'osservazione simile, nel nostro mondo? Non è manierismo, un eccesso, un'esagerazione? All'altro estremo, la chiacchiera culturale e la banalità corrente hanno oscurato, quasi affogato l'animo umano. La psicologia, la sociologia, le discussioni letterarie, pure la Storia cosi come viene scritta, sono montagne di rifiuti che ci soffocano, immondezza che ci ricopre. Se si accetta tutto quesio, non vale la pena d'essere scrittore. Tra banalizzazione e ipersensibilità, mi sembra che il lavoro vero dello scrittore possa essere oggi soltanto quello di smantellare la spessa stratificazione delle idee ricevute, dei luoghi comuni accumulatisi nell'educazione, nelle abitudini mentali: e di tentar di arrivare al punto essenziale, dove sta l'essere umano». Lietta Tornabuoni Saul Bellow: «Ho visto crollare le città americane: preferisco vivere a Chicago, dove posso travestirmi da professore d'inglese, piuttosto che a New York, sempre più simile a Napoli»