Peccatori del dissenso

Peccatori del dissenso Peccatori del dissenso PAOLO GARIMBERTI 11 processo di Varsavia contro quattro dirigenti del Kor, il Comitato per la difesa degli operai, e la richiesta di asilo del regista sovietico Andrej Tarkovskij propongono un interrogativo: perché il dissenso-polacco è diventato un movimento di opposizione politica, che sfida il regime, mentre il dissenso sovietico si risolve sempre più in un movimento di migrazione, per quanto involontaria e dolorosa, verso l'Occidente? Si possono trovare spiegazioni storiche, con qualche attinenza addirittura alla biologia e alla psicologia: la natura contemplativa e mistica dell'anima russa, poco incline alla concretezza e al pragmatismo della politica; e, in contrapposizione, la natura aggiessiva, fieramente combattiva, ancorché un po' velleitaria, dell'anima polacca. Come dice un proverbio: un polacco da solo è un patriota, due polacchi insieme formano un partito, tre polacchi insieme fanno la rivoluzione. Non a caso il dissenso polacco esiste dal secolo scorso: intellettuali e preti — il «regno delle anime», come fu definito quel connubio — ne erano già allora il nerbo, sul quale nei nostri giorni si è felicemente innestata la presa di coscienza politica della classe operaia, dando vita a Solidarnosc. Mentre in Russia il dissenso sembra avere una consolidata tradizione migratoria: accadde dopo l'avvento del potere dei soviet e si ripete oggi, e mai le sparse membra dell'opposizione sono riuscite a fondersi, in patria o in esilio, in un movimento politico organizzato. Secondo un' immagine di Jcrzy Kosinski, «siedono nei caffi francai, parlando in russo e preparando la liberazione del loro vecchio Paese; forse sono fuggili dalla prigione soltanto per rinchiudersi in un'altra prigione, quel/a della loro lìngua e della claustrale subcultura dell'emigrazione». La recente polemica, non priva di basse insinuazioni personali, tra i seguaci di Solzenicyn e i cosiddetti «pluralisti» non è altro che la conferma della validità di questa descrizione. C'è una verità che i dissidenti sovietici non amano sentirsi dire, e con loro tutti quelli, in Occidente, che sono convinti che il dissenso è una mina vagante, la quale, un giorno o l'altro, esploderà sotto il Cremlino. Se il dissenso non riesce a diventare una sfida scria e credibile per i governanti di Mosca, la colpa è, oltre che della spietata efficienza repressiva del regime, anche sua. Divisa da astiose rivalità personali, in patria come in esilio, impegnata in dispute teologali assolutamente astratte, l'intelligenciia dissidente non si è quasi mai preoccupata di stabilire un collegamento con la massa dei lavoratori, né ha saputo coglierne e interpretarne malumori e frustrazioni. E a pagare il prezzo più alto di questo peccato di superbia intellettuale hanno finito per essere gli idealisti puri, come Andrej Sacharov, o quell'impavido manipolo di attivisti che non ha mai potuto contare sulla garanzia protettiva del grande nome artistico o letterario. Onore al coraggio e alla sofferenza, dunque. Ma una severa autocritica e l'abbattimento di qualche piedistallo sono forse necessari al dissenso russo se non vuole diventare, più di quanto è già, almeno in Occidente, un club artistico-letterario, e nulla più.

Persone citate: Andrej Sacharov, Andrej Tarkovskij, Kosinski, Solzenicyn

Luoghi citati: Mosca, Russia, Varsavia