Turati senza tabù

Turati senza tabù DOPPIA ANIMA DEL SOCIALISMO Turati senza tabù Il presidente Pcrtini ama ricordare spesso", in pubblico e in privato, quella trasmissione televisiva sulla storia del socialismo italiano, due o tre anni fa, in cui improvvisamente Umberto Terracini, l'intransigente degli Anni Venti, il pellegrino a Mosca della stagione leninista, parlando del congresso di Livorno del gennaio 1921 — il congresso che aveva visto la scissione socialista e la nascita del partito comunista — concluse la sua indagine, come sempre impietosa, con le espressioni sorprendenti: «Tunitr aveva ragione». Nessuno vide come lui — riferisco a memoria — i pericoli della diaspora delle forze socialiste anche rispetto alla dittatura avanzante. «Turati aveva ragione». Ma quasi nessuno ricorda che in quel congresso, dove Terracini — giovanissimo e implacabile, accusato perfino da Trotsky di «impazienze rivoluzionarie» — aveva parlato per quattro ore, Turati era su posizioni di estrema minoranza, non rispecchiava neanche il pensiero della maggioranza del partito socialista. Il direttore di Critica sociale, il leader del socialismo riformista, portava con sé appena 14.696 voti su 172.487 (e contandovi dentro anche gli «unitari» di Lazzari): poco più dcll'8 per cento. La maggioranza assoluta dei suffragi, quella che avrebbe dovuto porre il partito al riparo dalle scissioni, era in mano ai mas simalisti di Giacinto Menotti Serrati: 98.028 suffragi. Il so cialismo di sempre, paralizzato fra rivoluzione e riforme (Enrico Ferri aveva detto a suo tempo, escogitando la formula, rivelatasi poi nefasta, dell" integralismo: «riformepiù rivoluzione: diviso due»). Occhieggiarne all'Unione Sovietica ma esitante a compiere il passo di aderire al fronte dominato da Mosca. Neutralista e convinto delle n.gioni del neutralismo, tenacemente c anche nobilmente serbate nel periodo bellico, ma senza alcuna possibilità di collocare una forza in ascesa come quella socialista nella nuova e modificata realtà della società italiana post-bellica (ancora nel novembre 1920 2162 comuni su 8000 e 26 province su 69 erano conquistati nelle amministrative dai socialisti, forti di 156 deputati su poco più di 500). Solo 58.78} i comunisti di Bordiga e Terracini: in cui si muoveva il gruppo torinese dell' Ordine nuovo con una nobiltà e una peculiarità caratterizzanti (e lo stesso Tetracini appariva a Gobetti, antidemagogico pei eccellenza, aristocratico). L'ala comunista a Livorno mirava abbastanza scopertamente al bis di Reggio Emilia di nove anni prima, all'espulsione, cioè, dei riformisti, questa volta turatiani. Era quanto aveva chiesto a gran voce Terracini. I comunisti puntavano, sbagliando, sul complesso dei massimalisti verso la rivoluzione d'ottobre. Perciò pazientarono fino alla fine dei lavori di Livorno, fino al 20 gennaio. Fu solo dopo il termine delle votazioni che Bordiga annunciò la rqttura, disse che la maggioranza dei delegati, rifiutando la rottura coi riformisti, si era automaticamente posta, con quel voto, fuori dall'internazionale controllata da Mosca. Di qui l'invito ad abbandonare subito il congresso, a riunirsi alle 11 del mattino dopo, nell'altro teatro della città cara a Modigliani e a Fattori, il San Marco, dove fu fondato il «Partito comunista d'Italia • Sezione dell'Internazionale co-' munista». Per dissimulare la loro debolezza, i riformisti, che nove atndftdapse1mtnpstnuimtp(bdrEzet anni prima erano stati amputati del braccio bissolatiano, si nascondevano sotto il manto della «concentrazione». E i fantasmi dell'unità e dell'unitarismo si opporranno sempre di più, negli anni successivi, alla polverizzazione delle forze politiche di ispirazione socialista. Quando si arrivò, un anno e mezzo più tardi, nell'ottobre 1922, proprio alle soglie della marcia su Roma e dell'avvento violento della dittatura, alla nuova spaccatura interna al psi, il partito che doveva nascerne, quello che sarà il partito di Matteotti, assumerà il di «Partito socialista nome unitario». E sarà quello il momento in cui pctfino Gaetano Salvemini, smagato da tutti e da tutto, reduce da unesperienza parlamentare fallimentare (quella del 1919-21), in un blocco indistinto e composito di combattenti, penserà di aderire al nuovo partito (lo rivela Enzo Tagliacozzo nell'introduzione al Carteggio 1912-1914, edito in questi giorni da Laterza). * * Anche allora, anche nella scissione di Roma, un rapporto di forze che rivelava le con «addizioni e le antinomie in sanate del socialismo. In un anno e mezzo di gestione, e nonostante uomini di alto valore intellettuale come Adelchi Baratono, i massimalisti contraddetti da tutti gli svi luppi della lotta e dall'aggra varsi impetuoso e indiscriminato della violenza fascista avevano messo in discussione la loro egemonia sui riformisti Le forze si erano quasi pa reggiate: al congresso di Roma gli aventi diritto al voto erano solo 73.065. I mas simalisti erano secsi dalle pun te di Livorno a 32.100 rappre sentami. I riformisti, con gl unitari, erano saliti a 29.119. Questa storia, malinconica e ammonitrice, rivive con rie chezza di dati, e anche con la suggestione di nuove prospct tive storiografiche, nella biografia imponente e accurata, oltre cinquecento pagine, che l a a , e un giovane storico torinese, Franco Livorsi, già cimentatosi con successo nella storia e nelle fonti del socialismo riformista, dedica oggi a Turati (Rizzoli). Il sottotilo patetico, Gttquanl'anni di socialismo in Italia, ci richiama a un libro, suggestivo e paradossale, dal medesimo titolo, che ebbe una certa risonanza nell'Italia dei tardi Anni Quaranta, ad opera di un reduce dalle esperienze socialiste di quell'epoca, approdato a una visione crociana e liberale, non senza punte disincantate e smagate, della lotta politica, che si chiamava Panfilo Gentile e che fu caro alla gcnctazionc del Mondo di Pannunzio (chi ha dimenticato Averroè?). Livorsi, che ha esotdito con un libro su Bordiga, Tanti-Turati, non si può dire un turanano. E' uno storico senza pregiudizi, moderno, che sa porsi i problemi di interpretazione e di collocazione dei fatai di fuori di impostazioni settarie o di visioni rigorosamente partitiche. Il suo libro costituisce un passo avanti rispetto a un cctto tipo di letteratura turatiana, diciamo cosi, «devozionale» (già la sua antologia sui socialisti riformisti si muoveva in questo senso). Costituisce un passo avanti perché liquida tabù, posizioni preconcette o superstiziose, scava al fondo dei problemi. Un dato nuovo che emerge dalla sua indagine (ci riferiasempre al primo dopoguerra e all'avvento del fascismo) è l'assoluta determinazione di Turati a non puntare mai alla partecipazione diretta ad un governo. Neanche nei momenti peggiori si andò oltre l'ipotesi di un appoggio esterno ed episodico. Su questo punto la storiografia liberale aveva molto equivocato. Livorsi arriva alle stesse conclusioni che Turati aveva già anticipato il 1° marzo 1920 in una lettera alla sua compagna e ispiratrice, Anna Kuliscioff, quando il fascismo era appena agli inizi: «Tu dici che è il nostro momento: lo sarebbe se avessimo... le masse e il partito con noi. Ma lo sai perfettamente che la realtà è l'opposizione», I risultati si videro nella tragedia che l'Italia consumò fra il '22 e il '25. Ci vorrà il sacrificio di Matteotti — il so cialista che Gobetti amava d più — per ridare al socialismo la forza di quella «religione delle coscienze» che ne preserverà il futuro durante gli anni della dittatura, oltre le scissioni e le ricomposizioni di quegli anni, e terra viva la partita aperta a Livorno nel gennaio 1921 Quella che Terracini giudica va vinta da Turati ma che su piano della lotta politica, < dcll'emulazione-compctizionc fra i due partiti d'Ila sinistra di classe, è più che mai aperta, Giovanni Spadolini l l 1910 Filippo Turati in una fotografia che risale al 1910