Alto Adige, una caccia in nome dell'ecologia di Giorgio Martinat

Alto Adige, una caccia in nome dell'ecologia Si selezionano i capi da abbattere per tutelare la specie Alto Adige, una caccia in nome dell'ecologia Secondo la tradizione asburgica l'animale non è «res nullius» ma appartiene alle popolazioni del luogo - Uccidendo i capi più deboli l'uomo si sostituisce ai predatori nell'impedire epidemie e sovraffollamento ■ «Bisogna estendere il modello ovunque» DAL NOSTRO INVIATO ANTERSELVA — Sta por nascere il cacciatore ecologico? Se ne è parlato, in questa verde convalle della vai Pustcrla, coperta di foresta, con un lago di smeraldo, durante la XIX assemblea generale nazionale dell'Unione cacciatori zona Alpi — Uncza — una sezione della Federazione italiana della caccia, con sede a Cuneo, che svolge da tempo una benemerita opera di educazione venatoria. E pare proprio che il cacciatore — il vero cacciatore — se non esistesse, bisognerebbe, al punto in cui siamo, inventarlo. E' l'unico predatore rimasto, scomparsi da decenni, se non da secoli lince, lupo, orso, avvoltolo, rarefatti le aquile ed 1 falchi. Cosi, ad esemplo, i cervi del Gran Bosco di Salbertrand si sono moltiplicati a dismisura fino a minacciare l'integrità della millenaria foresta. E le stesse specie protette nel grandi parchi sono in continuo pericolo senza l'azione sanitaria dei predatori: il sovraffollamento sembra sia stata la causa prima, o almeno una concausa fondamentale, dell'epidemia di cherato-congluntivlte tra gli ungulati del Gran Paradiso o della rogna rossa che recentemente ha portato sull'orlo dell'estinzione i camosci del Triglav in Slovenia. Suona quindi abbastanza obiettivo, anche se è una campana di parte, il Conseil interna tìonal de la cJiasse et pour la protectlon du gibier che, dal parco dei Grigioni, ha recentemente raccomandato di abbattere almeno il dieci per cento, ogni anno, degli animali. Allo scopo di proteggerli. Lo stambecco che abbandona le vette e scende nei prati — mi dice Luigi Rivoira, torinese, uno degli associati dell'Uncza — è un indice sicuro di sovraffollamento. Come i camosci della Valsesia che arrivano a quattrocento metri di altitudine, in vista delle fabbriche di Borgosesia anche la fauna — aggiunge Rivoira — va trattata come la foresta. Non esistono più foreste naturali: sono tutte «coltivate», con opportuni diradamenti e prelievi, perché si mantengano floride. Il modello di gestione del patrimonio faunistico, in Italia, lo abbiamo qui, in Alto Adige. E' lo stesso che ha consentito a Austria, Jugoslavia, e Ungheria di fare della caccia un'industria, che fornisce una considerevole quota di carne •alternativa-, cioè di selvaggina, con un contemporaneo incremento del patrimonio faunistico. Lo si deve alla vecchia legge asburgica secondo cui l'animale non era «res nullius», cosa di nessuno, della quale chiunque poteva impadronirsi, come in Italia; né, come in Spagna, appannaggio feudale del signore del fondo, ma apparteneva al fondo stesso. E i padroni del. fondi, cioè le popolazioni del vecchio impero austro-ungarico, si sono gestite questo patrimonio nel migliore dei modi: prelevando gli interessi senza intaccare, anzi aumentando, il capitale. •E' un modello — mi dice il presidente dell'Uncza, Bruno Vigna — che cerchiamo di traplantare su tutto l'arco alpi¬ no, incoraggiando la caccia di selezione anzìcìié la caccia per il trofeo o per la carne, promuovendo censimenti degli animali, valutazioni obiettive dell'ambiente e della sua consistenza faunistica, controlli sanitari. £ soprattutto cercando di creare una nuova generazione di cacciatori». A Cuneo, sede dell'Uncza, si sono creati corsi per «esperti accompagnatori» (in Alto Adige lo sono tutti i cacciatori), in g àdo di valutare l'animale secondo classi di età e in base al suo stato di salute, in modo da indicare anche al cacciatore della domenica i capi che non solo è permesso, ma è bene abbattere. Si è ottenuto dalla Regione un regolamento della caccia che punisce severamente ogni Infrazione («sono ormai decine le sospensioni di autorizzazioni a cacciare, per periodi da uno a sei anni, per chi ha comìnesso scorrettezze») e si ammette nelle zone di caccia un numero di tiratori proporzionato all'estensione del territorio ed alla sua densità faunistaica (un fucile ogni settanta-cento ettari). « Abbiamo fatto passi giganteschi: il problema è ora estendere il modello dovunque». « Vogliamo essere — conclude Vigna — veri cacciatori, non bracconieri o sparafucili». «Gente — aggiunge Cesare Pittaluga. presidente del cacciatori piemontesi — die la preda se la guadagna scarpinando per la montagna, gareggiando con il selvatico in reslstejiza ed astuzia. Non di quelli che spararlo appoggiando il fucile sul tetto dell'auto». Cacciatori ecologici, insomma. Con uno stile. Che i convenuti a questa assemblea dimostrano anche esteriormente (vestono tutti la giacca verde di loden dei tirolesi, che, mi dicono, è diventata un po' l'uniforme del vero cacciatore, dalle Alpi slovene al Pirenei: soltanto lo sparafuclle va a caccia in jeans) e fanno rinascere antichi rituali. Li ha accolti, qui ad Anterselva, il gruppo del suonatori di corno guidato da Andrea Leitgeb, con il saluto tradizionale. E all'imbrunire, erano tutti alla messa commentata dal corni, gli antichi segnali venatori, per la «chiamata e il raduno» dei cacciatori, per «la morte del cervo» e per «/'addio agli animali». Giorgio Martinat

Persone citate: Andrea Leitgeb, Bruno Vigna, Cesare Pittaluga, Luigi Rivoira, Rivoira