Perché un massacro nel Tempio d'Oro?

La tragedia dei Sikh del Punjab: come può essere soffocata una minoranza La tragedia dei Sikh del Punjab: come può essere soffocata una minoranza Perché un massacro nel Tempio d'Oro? Lo scettro di Indirà Dannati della terra La sua sanguinosa azione militare potrà avere in India gravissime conseguenze politiche - Ma la sfida terroristica dei Sikh era già costata omicidi e violenze di Aldo Rizzo Avevano chiesto a Sant Jarnail Slngh Bhindranwale, il «Khomeini dell'India», se avrebbe accettato da Indirà Gandhi l'offerta di discutere direttamente sulla rivolta dei Sikh, che stava insanguinando il Punjab. Aveva risposto: •51, a condizione che venga qui leU. Invece di Indirà, nel Tempio d'Oro di Amritsar, è arrivato l'esercito indiano, e ne è seguita la carneficina, che ha riportato l'India sulle prime pagine di tutto il mondo. Cosi una disputa religiosa si è trasformata in una grande tragedia, anche politica, perché, se Indirà ha salvato l'autorità del governo centrale, tutti quei morti, fra i quali 10 stesso Bhindranwale, restano una tremenda eredità negativa sui rapporti tra i Sikh e gli Hindu, e più in generale tra il Punjab e l'Unione. E si sa che le spinte separatiste sono contagiose, in un Paese multinazionale, multtreligioso, multilingue, qual è, drammaticamente, l'India. Ma bisogna dire che quella dei Sikh era ormai diventata una sfida terroristica all'autorità dell'Unione: decine e decine di omicidi, e violenze di ogni genere, da quando Bhindranwale si era asserragliato nel Tempio d'Oro con 1 suoi pretoriani del «Reggimento Dashmesh». Il Tempio era diventato propriamente uri «santuario», come si dice in un altro senso: vale a dire che, fidando sulla sua inviolabilità, vi trovavano rifugio i terroristi dopo le azioni. E non era una protezione «a posteriori», era una precisa strategia guerrigllcra. «Non comprate televisori, comprate bombe», esortava il profeta. « Uccidete, poi tornate da me». Chissà che avrebbe detto il guru Nanak, che cinque seco 11 fa predicò una religione se vera, fondata su un rapporto diretto tra l'uomo e il suo Dio, senza riti, culti e cele brazionl, una religione da ri spettare essenzialmente nella pratica' quotidiana, nella moralità dei rapporti col prossimo (e si chiamarono Sikh, cioè discepoli, i suoi se guaci). In un certo senso un ponte, dicono gli storici delle religioni, tra le due grandi fedi del subcontinente, l'Islam col suo rigoroso monoteismo e l'hinduismo polite! sta, tuttavia sormontato da un solo, vero Creatore (Bra lima). Nel libro sacro {Adi Granth o Granth Sahib) nel quale fu rono raccolti gli inni e i discorsi di Nanak, vi sono anche, secondo alcuni, i principi di una moderna «democrazia religiosa»: s'immagina per via dell'accesso diretto alla divinità e di una conseguente responsabilità personale, fuori da intermediazioni sacerdotali o castali; ciò che parte le caste, connaturate all'hinduismo, fa in un certo modo venire in mente a un occidentale la drammatica austerità della Riforma cristiana, fatte salve le grandi distanze culturali e amblen tali. Accadde comunque che, in vece di essere un ponte tra musulmani e hindu, i Sikh finirono per essere sospettati dagli uni e dagli altri, come spesso succede in questi casi Dai sospetti alle persecuzioni, che peraltro sempre più cementavano la loro solidarietà, che a sua volta irritava ulteriormente i persecutori Fino alla costituzione di uno Stato sikh, nel Punjab, con capitale Labore, tra la fine del diciottesimo e il principio del diciannovesimo secolo alla quale risposero gli india ni, col decisivo supporto in glese, attraverso due guerre spietate, che posero fine alla secessione. E tuttavia, quando si trattò di scegliere tra l'India e il Pakistan, in quella zona di con fine, dopo la spartizione se guita alla fine dell'impero britannico, i Sikh scelsero l'India, sfuggendo al Pakistan musulmano. Del resto altre comunità sikh, fuori dal Punjab, erano sparse In altri Stati di quella che diventava l'Unione indiana. Cominciò una difficile convivenza, tra richieste di autonomia, resistenze e poi concessioni del governo centrale, nuove ri¬ mtsPdPncSmspbcbec chieste e cosi via. Una situazione diclamo cosi, dialettica, ma non drammatica, tant'è vero che il partito «Akall Dal», il partito storico del Sikh, si alleò col Partito del Congresso di Indirà Gandhi, nelle elezioni. Poi la svolta integralista, entrata in scena del personaggio inquietante e tragico, che è stato Sant Jarmail Singh Bhindranwale. Tradizionalista, «fondamentalista», ossessionato dai simboli, che si erano sviluppati fra i Sikh a dispetto deiausterità delle origini (simboli esteriori e banali, come i capelli e la barba intonsi, il braccialetto di ferro al polso, ecc.). Bhindranwale fu l'ispiratore, nel 1978, del regolamento di conti fra Sikh radicali e moderati. Avviò una spirale che doveva portare gli stessi moderati, per un ovvio complesso, ad aver paura di sembrare tali. Pino alla carneficina nel Tempio d'Oro, ridotto a santuario di terroristi, giovedì scorso. I Sikh, in tutto il territorio indiano, sono oggi, più o meno, il due per cento della popolazione, più di dieci milioni. La gran parte è nel Punjab, dove gli Hindu sono netta minoranza, essendo stragrande maggioranza nel resto dell'India. Questo è il dramma. Si aggiunga che, rispetto al livello medio dell' Unione, il Punjab a prevalenza sikh è uno Stato prospero. Fornisce il 40 per cento di tutto il grano indiano, il terreno è a proprietà diffusa, circa mezzo milione di hindu di altri Stati vi trovano, o vi trovavano, un lavoro stagionale. Ciò rafforza l'orgoglio «religioso» e alimenta la tentazione di un ricatto. E spiega anche, o concorre a spiegare, il «blitz», dell'esercito contro il Tempio d'Oro di Amritsar. Comunque la si guardi, una storia tristissima (fermo restando che se saltassero, per una reazione a catena, gli equilibri interni dell'India, sarebbero guai anche peggiori per tutti). Jarnail Singh Rhindran L'India appariva come luogo dello spirito, anima nonviolenta del mondo - Ma restano le caste, la morte per fame, i conflitti fratricidi - I guru con Rolls-Royce di Piero Sinatti «Il Terzo Mondo è oggi di fronte all'Europa come una massa colossale il cui intento deve essere quello di cercare di risolvere i problemi cui 1' Europa non ha saputo portare soluzioni» scriveva, in piena guerra d'Algeria, il incàico martinicano Franz Fanon in un testo, I dannati della terra, destinato a diventare il manifesto degli intellettuali radicali d'Asia, Africa e America Latina, nonclié degli orfani di Stalin, dei delusi del pc di Roma o di Parigi, dei salottieri annoiati, degli studenti ansiosi di riscattare il mondo da un male chiamato 'imperialismo»: aveva cominciato Sartre die, presentando il libro di Fanon, aveva scritto die gli occidentali, per redimersi, avrebbero dovuto regredire fino all'-indigcnato»: «Per diventare indigeni completamente, occorrerebbe che il nostro suolo fosse occupato wale, il capo dei Sikh, morto nella strage del Tempio d'Oro dagli antichi colonizzati e noi crepassimo di fame». Dalla celebre prefazione di Sartre a Marcuse e all'esotismo guerrigliero di Guevara e Régis Débray il passo fu breve: ne venne fuori una miscela esplosiva che, grazie al Vietnam, infiammò Berkeley e le antiche città universitarie d'Europa. Il Terzo Mondo diveniva, così, il depositario della liberazione dell'umanità intera: un sogno nato anni prima a Bandung. Patrice Lumumba e i Mir sudamericani, Guevara e la triade Mao, Ho Chi-Minh, Giap i khmer rossi della Cambogia, i rivoluzionari filocomunisti dell'Africa portogliese, i guerriglieri della Rhodesia: furono questi i protagonisti dei sogni trlcontlnentali dell'intellettualità radicale d'Europa (e d'America): le masse contadine dei Paesi poveri avrebbero affrancato il mondo: la campagna assediava la città, secondo le teorie dell'ef- ò o e a e 1 , a i i flmero delfino di Mao, Lin Biao. Ma Guevara, intanto, era morto a Camiri, Bolivia, tradito da coloro che voleva liberare; i piccoli viet, ^liberati», ricreavano il gulag, e il Mar della Cina si sarebbe presto popolato della -gente dei battelli»; si scopriva con orrore, imbarazzo e pentimenti tardivi (da Lacouture a Terzoni) che in Cambogia i khmer rossi di Poi Pot avevano ben appreso la triste lezione del genocidio; le colonie portoghesi, liberate dal Portogallo, erano conquistale dalla fame, oltre che dai soldati di Castro e dalle armi dell'Est; nella Rhodesia, liberata dai -bianchi razzisti», gli odi tribali dividevano le due anime -marxiste» del Movimento di liberazione nazionale, insanguinando il Matabeleland; Régis Débray è diventato, dopo, all' Eliseo, uno dei consiglieri del principe Mitterrand. Il terzomondismo rivoluzionario, infine, si incagliava sulle secche iraniane, in mezzo al sangue delle vittime dell'imam sanguinario. Cosi, il Terzo Mondo -liberato» si scopriva -colpevole»: del resto, anche Fanon lo aveva scritto: «Non ci saranno né mani pulite, né innocenti»; ma non aveva previsto che le mani non bianche si sarebbero macchiate di sangue di non bianchi; non c'erano più né -innocenza», né -liberazione», per le -campagne del mondo». Ma non era stata affidata solo alle armi dei guerriglieri l'utopia terzomondista: ci fu il sogno non violento di chi, negando l'Europa e la sua,, cultura, la civiltà delle macchine e degli iperconsumi, corse in India per abbeverarsi al sapere dei santoni, dei guru che in pochi anni accumularono fama e fortuna grazie al desiderio di autorigenerazione (questa volta individuale) dei giovani figli dell'Uomo Occidentale. Il mistico Oriente si confondeva con la vo-' lontà di rifiuto del padre: nacque così, proprio in India, «un mercato del sacro che rappresenta oggi un vero impero finanziario, come scrive sarcasticamente Pascal Bruckner nel suo impietoso e acutissimo pamphlet I singhiozzi dell'uomo bianco (uscito da poco presso Longanesi). L'India appariva agli occhi del giovani occidentali come il luogo dello spirito, la tappa obbligata per la Rinascita, I' anima irenica, gandhiana, non violenta del mondo: sfuggiva del tutto il volto violento di questo Paese che una sottocultura idealizzava, mentre i guru imparavano ad amare le Rolls-Royce: .quello delle caste; della morte per fame tra gli sguardi indifferenti della gente; del massacri ricorrenti nei conflitti religiosi' tra indù e mussulmani (500 mila morti dal '47 ad oggi: ma forse è una cifra ben lontana dal vero); delle tentazioni e delle pratiche dispotiche di governanti appena frenati dall 'ere-ditàdel parla mentarismo britannico. Il massacro dei sikhs avvenuto giorni fa nel Punjab, con la violazione da parte delle truppe governative del Tempio d'Oro d'Amritsar, ripropone drammaticamente V esistenza di un'India ben diversa da quella immaginata dai pellegrini bianchi di Poona, dagli allievi di Maharishi Maesh Yogi o di Bhaghwan Rajnesh f«il più folle tra 1 ciarlatani d'Asia» secondo Bruckner). I morti si sono contati a ■ centinaia e centinaia, il 6 giugno scorso: e centinaia, neppure un mese fa, erano state le vittime degli scontri tra indù e mussulmani nella cittadina di Bhigwandi e in altri centri della regione di Bombay: gli ultimi —cronologica-1 mente parlando — di una guerra religiosa che dura dall' indipendenza dell'India ad oggi. Di cui -Il cattivo occidente» non ha colpa. Sarà finito, dunque, anche il mito dell'India?