Metti un Leone a Cannes di Stefano Reggiani

37e Festival international du film 37e Festival international du film Metti un Leone a Cannes DAL NOSTRO INVIATO CANNES — // film-evento, il film-vita di Sergio Leone è qui, in una sala affollata di giornalisti e curiosi, conclude il suo concepimento tormentoso e la gestazione lunghissima. Nasce per restare, controverso o no, nella memoria e nelle storie, singolare caso di follia amorosa verso l'America e verso il cinema. Come si fa a parlare di un film che è costato al suo regista oltre dieci anni di vita e di passioni e di incomprensioni non finite? Come si fa a stringere C era una volta In America in un giudizio conciso come una segnalazione stradale? E che cosa si deve aggiungere se il regista è quel Sergio Leone inventore a suo tempo di un western sema passato, puro argine stilistico alla violenza europea e alla sua personale? Si sta giustamente sospesi in uno stato di solidarietà conflittuale, di consenso patteggiato: ammirati, turbati, provati e provocati. Ha rincorso un'impresa senza limiti, una favola sull'America immaginaria sognata attraverso il cinema, un apologo immenso sul cinema come codice avventuroso, tanto immenso e debordante che adesso i distributori americani chiedono di ridurlo, di tassarlo, di punirlo rifacendosi al contratto e all'idea die tutto si può dire in due ore e mezzo, invece che in (quasi) quattro. Il curioso, il bizzarro sta nel fatto che le due pretese sembrano poter coesistere: il diritto di Leone a vedere rispettata l'integrità della sua opera, IWusione americana di ridurla, di -spiegarla- secondo Intervista a Dino De Laurentiis Contin Guerra delle re ua la polemica tr quegli stessi codici hollywoodiani die Leone ha preso in prestito e forse definitivamente stravolto. La grandezza del Leone regista, riconosciuta tardi e non troppo di buona voglia, sta in questa capacità di stravolgimento e di rottura del tempi. C'era una volta in America sta disteso come un corpo gigantesco in tre ore e quaranta minuti e ancora ne cresce un' ora per l'edizione televisiva; ma anche solo un brandello di C'era una volta in America è tutto il film. Ambiziosa e straordinaria epopea che non fa che ripetersi variandosi, che sente lo sviluppo storico come un semplice accorgimento dello stile, non come una necessità narrativa (anche se la trama ha la struttura del poliziesco. La stessa idea di spartire il film in tre tempi paralleli e intrecciati (l'infanzia del protagonista, la sua età adulta, la sua vecchiaia) denuncia subito die il narratore abolisce il teimio a favore di un presente sentimentale, continuo, assorbente, forse stancante. Non importa sapere cosa avviene, ma come Leone lo farà avvenire, secondo quale ordine di precedenze, di furbizie, di illuminazioni, di divagazioni. Quest'America reinventata dagli Anni Venti agli Anni Sessanta è il cinema da reinventare, ma anche da commemorare. Ha detto Leone: «Io di gangster ne so quanto qualunque altro... Cioè, poco: ma sottintendendo: di cinema so tutto, ne ho l'anima piena e ne avanza. Cosi necessaria mente la sua frase lunga e so¬ ti nazionali per a a il regista italia spesa da western s'è allargata in cadenze ptii. piane per accogliere tutti i particolari, l' ellissi cara al vecchio cinema americano s'è convertita nell' iperbole, gli spazi e i tempi vuoti che nel Leone del western si riempivano di suspense sarcastica; qui si riempiono di metodo e di sentimento. E' il passaggio dal Leone avventuroso al Leone sentimentale: Come chi dicesse: vi racconto il sogno della mia nostalgia, anzi vi spiego che cos'è la nostalgia. Ma si può? C'era una volta in America è qui col suo sforzo maestoso a testimoniarlo, non storia dell'America, neppure soltanto storia del cinema, ma storia di una passione implacabile verso le immagini trascinata per anni, come un corpo ferito, attraverso le avversità fino alla salvezza clamorosa dell'opera compiuta. Sapete che la vicenda sta chiusa in un pugno. Il gangster Robert De Niro, mezza calza del crimine, figura di secondo piano nella malavita ebrea degli Anni Venti e Trenta, fa i soldi col proibì zionlsmo, stringe amicizia con l'altro teppista James Wood, quando entra in crisi per aver tradito si inciucca di oppio e forse sogna. Ricorda l'adolescenza nel ghetto di New York, i primi gesti criminali, il primo amore; forse immagina il futuro, l'amico Max che ha fatto carriera all'ombra del politici, che gli ha rubato la donna (Elizabeth MacGovern), che vuole un grande piacere da lui, un colpo di pistola per toglierlo da un processo e dalla vergogna. ccaparrarsi il diri no e la produzion Kcco un'immagine dell'AmericPerché il cinema e la vita si somigliano in questo: che tutto il meglio è subito finito e l' unica dolcezza è il ricordo. Anche per due delinquenti sènza storia, per due criminali immaginari. Il film è pieno di colpi di cinema come una tto di trasmettere e statunitense ch a vista dall'occhio a volte crudele dparodia drammatica del genere (l'amore su un carro funebre con una finta morta, i bambini scambiati all'ospedale in tutte le culle, il pranzo nel Grand Hotel deserto): segnali del regista e del sadismo pacificato con cui guarda ile(gmft i film che sono a e vuole interve di Sergio Leone (sulla destra: Roil mondo, come una fiera della violenza, assassini, sangue, esplosioni, in cui le donne (due stupri a lungo metraggio) hanno la parte di vittime, ma anche di complici, una fiera omicida che il sentimento della nostalgia lenisce ap¬ ppena stati proi nire e tagliare obert De Niro e Mia Farro»-) e, e e, a np¬ pena, tanto che sembra un pretesto estenuato, rancoroso e ingenuo come le note di Amapola che accompagnano De Niro, il travet del crimine, mai così solitario e umiliato. Stefano Reggiani ettati al festival

Persone citate: De Niro, Dino De Laurentiis, Elizabeth Macgovern, James Wood, Robert De Niro, Sergio Leone

Luoghi citati: America, Cannes, New York