Utopista concreto di A. Galante Garrone

Utopista concreto A CONVEGNO SU ERNESTO ROSSI Utopista concreto 1/insegnamento di Ernesto Rossi, tra utopia e riforme, è il tema del convegno che si apre oggi a Milano, e che di questo uomo straordinario, morto settantenne nel 1967, prenderà in esame tutti gli aspetti: l'intrepido antifascista, a lungo incarcerato e confinato, l'economista, il federalista, l'anticlericale, lo scrittore. Una figura unica, nella storia italiana di questo secolo: perché, di solito, utopia e riforme sembrano termini antitetici, inconciliabili; e invece in lui trovavano un incomparabile punto di fusione. Utopista concreto, lo ha felicemente definito Sylos Labini. Rossi diffidava delle teorie astratte, dei sogni disancorati dalla realtà, delle evasioni nel sublime. L' arcadia va lasciata ai poeti, diceva. Ma in lui c'era sempre una sete di assoluto, un impegno totale di vita, una imperterrita intransigenza di principi fatta di moralità e eli razionalità. E c'era, insieme, un acuto senso dei problemi concreti, in cui si traduceva e si risolveva, senza residui, la sua fede d'acciaio. Illuminista e empirico a un tempo: due qualifiche che gli si attagliano alla perfezione. Suoi maestri di pensiero e di vita furono, più di tutti, Gaetano Salvemini e Luigi Einaudi. Quando, appena tornato dalla guerra, un po'infatuato di superficiale nazionalismo, Rossi incontrò il primo dei due, candidamente gli rac contò di avere anche lui grida to nelle dimostrazioni dei combattenti: «Abbassa Salvemini e Bisso/ali, ruffiani dei croati», il professore sbottò in una bella risata; ma quando, qual che giorno dopo, quel ragazzo lesse La questione dell'Adriatico, subito capì che razza d uomo fosse Salvemini, unnico uomo a 24 carati», e ne fu conquistato per sempre. Quando Salvemini morì, nel 1957, scrisse su di lui, sulla sua vita e la sua morte, le più belle pagiHO'dic siano state mai dedicate a quella grande figura Andic Einaudi lo ebbe carissì mò; lo considerava (come disse a Piero Sraffa) il suo migliore discepolo Questo giovane non ebbe un attimo di esitazione o di sosta nel gettarsi allo sbaraglio . contro lo squadrismo, e poi contro il regime trionfante. Non si faceva illusioni sugi italiani. Diceva che Cavour era un inglese, nato per sbaglio in un Paese balcanico che il fascismo non era Mus solini e una piccola cricca d; criminali, ma era il popolo italiano. Di qui la sua implacabile severità verso gli antifascisti da salotto, o i politicanti che, vantando \'«arte del possi bile», si acconciavano a pavid compromessi, o certi «trombo ni» dell'antifascismo che non muovevano un dito. Più che la politica del Vati cano, lo indignava la sudditan za dei poteri dello Stato nei confronti della Chiesa; più che il sopruso autoritario, il conformismo dei pusillanimi, fa mosi intellettuali o alti mag strati che fossero. E la sua d sincantata visione della realtà economica, e del subdolo pei petuarsi dei «padroni del vapo re», così pronti a voltare gab bana, lo aiutava a capire che certi mali di fondo, preesistenti al fascismo, sarebbero so prawissùti alla sua caduta NsiulomsgvAvmatbtrmccscgog o o o , a Nacque così, da questa persuasione che il fascismo non fosse una «invasione degli hyksos» ma lo specchio, la «rivelazione» di mali secolari, la tenacia delle sue polemiche di questo donoguerra, raccolte in memorabili volumi: Critica del capitalismo. Abolire la miseria, I padroni del vapore. Settimo: non rubare. Il manganello e l'aspersorio, Pagine anticlericali, e altri ancora. Ma non c'era odio, né fanatismo, in queste sue roventi battaglie. L'indignazione fortissima si stemperava nel sorriso, nell'arte tutta toscana del motteggio, in quella rara felicità di battute e d'immagini che è dei veri scrittori. Nel suo abito scientifico, nella sua capacità di risalire dai contingenti problemi del giorno a .juclli tragici del futuro, è I' origine di certi suoi presagi e ntuizioni: come la-previsione, già nel I9J5 quando era in prigione, di orrende guerre atomiche («Cosa succederebbe se si riuscisse a disporre dell'energia risultante dalla decomposizione lill'atomo?»), o la sentita necessità di una federazione europea. Un'esigenza, questa, che si era affacciata alla sua mente negli anni del carcere, e si sarebbe approfondita al confino di Vcntotcne, con Spinella Colorni. La sua radicale opposizione al fascismo non si mmiseriva in una pura contedi potere, ma aveva un respiro universale, si librava nel cielo della storia. Della sua presidenza all' Arar, che accettò con totale abnegazione nel primo decennio di questo dopoguerra, polii sanno. Einaudi diceva che ra stato l'unico presidente di un ente economico pubblico he fosse riuscito a cacciar via lei ladri e a portare un attivo o Stato. Contro le corruzioc gli scandali — ormai diventati una delle più gravi piaghe nazionali — fu inesorabile. La sua rubrica sul Mondo, Scandalusìa", temuta e odiata da chi non avesse le carte in regola, non dava tregua ai profittatori e ai «padroni del vapore». Come ha detto Leo Valiani, ci vorrebbe di nuovo una penna disinteressata cornei la sua. Pochi sanno della sua grande umanità, della sua comprensione per gli infelici che incontrava nei «transiti» da una prigione all'altra, per gli agenti di custodia, per gli amici che non avevano trovato in sé la forza di resistere, per gli stessi avversari, e i diversamente pensanti, dei quali scriveva in una lettera: «Si può dire solamente che loro sono stati costruiti da madre Natura e dall'ambiente in un modo, e noi in un modo diverso». Si considerava un fortunato, un privilegiato dalla sorte, dalla cultura, dall'incontro con grandi amici: mentre in realtà la prima radice della sua natura era nella tempra adamantina, ncIP incondizionato sacrificio di sé, nella incrollabile fede. Il suo libro più bello è forse la raccolta postuma delle lettere dal carcere, intitolata Mogio della galera. Ne riporto solo alcune frasi: «La forza può aver ragione di noi indivi dualmente, ma mantener fede a noi stessi vuol dire trasmettere alle generazioni a venire con l esempio che vale più della parola, quel che fa sì che l'uomo sia veramente uomo: la libata... Un fallito in politica è un morto, uno che non ha più niente da dire, e non un Mazzini o un Cattaneo, ai quali si rivolgeranno anche domani tutti coloro che desiderano formare una coscienza più civile nel nostro Paese... Vivere vuol dire agire, e non si può concepire come col trascorrere del tempo un'azione passa andare mai perduta». La sua fine, in un letto di ospedale, fu di una serenità esemplare, come quella del suo amato Salvemini. In una delle sue ultime lettere, parlava commosso della premura di medici e infermieri: «Questa è la brava gente italiana che non conosciamo, che nessuno neppure immagina esista leggendo i rotocalchi, guardando i capelloni, ascoltando le cantaurlatrici, annusando il .mondo fasullo dei Personaggi 'Molto Importanti». Con questa visione cpnfortantc si assopì nell'ultimo sonno. A. Galante Garrone

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