Quella primavera nel Lager 344

Quella primavera nel Lager 344 QUARANTANNI FA, NELLE MANI DEI TEDESCHI CON 50 COMPAGNI DELL'ARMIR Quella primavera nel Lager 344 Il lungo viaggio tra boschi e paludi - Immagini che tornano come in incubo: i prigionieri nelle miniere di carbone, «solo gli occhi erano bianchi, d'un bianco terribile, spento» - Sorvegliati da ex soldati russi - Il caporale della Wehrmacht come un dio presso la forca - Testimonianza di un contadino polacco - Il poeta sopravvissuto alla distruzione del ghetto di Varsavia Eravamo un gruppo di cinquanta prigionieri, dimenticati da tutti lungo le paludi del Baltico. Un giorno di fine aprile del 1944 ci fecero rientrare dal lavoro e radunate le poche cose ci condussero alla prima stazloncina spersa in quella landa. Qui ci fecero entrare in un carro bestiame e ci rinchiusero. A notte sentimmo che il carro veniva agganciato a un treno. E partimmo. Uno addosso all'altro, semiaddormentati, pieni di fame e di miseria sentivamo i colpi dei respingenti e i sobbalzi degli scambi rintronarci nel cervello. Ogni tanto delle voci esterne roche o urlate ci facevano capire che forse si stava transitando da qualche stazione; ma nulla sapevamo di quello che stava accadendo fuori. Dopo veglia e sonno venne l'alba dall'alto finestrino inferriato, e fattomi Sollevare fin lassù da un compagno robusto cercammo di capire la direzione e il luogo. La direzione, leggendo il segno del sole'che mai non sbaglia, era decisamente verso Sud. Ma quale il luogo? Era foreste di betulle e di' pini, paludi, qualche villaggio semideserto attorno a poche terre scure arate da cavalli magri come noi. Passando da una stazione con tutti i binari occupati da tradotte con soldati tedeschi, potei leggere «Blalystock». Sul fiume rutto il giorno restammo rinchiusi consumando lentamente il pane che ci avevano dato prima di rinchiuderci; con la nostra sete, con il nostro odore animalesco. Passammo anche un grande fiume, e ci accorgemmo di questo per lo sferragliare sopra un ponte. Forse era la Vistola? Alla sera il treno si fermò in una stazione dove non c' erano case. Ci fecero scendere per defecare tutti in gruppo ai piedi della scarpata e sotto lo sguardo indifferente della scorta armata; chiesi dell'acqua, e ci permisero di rifornirci alla riserva per le locomotive. Ci rinchiusero nel vagone che era stato sganciato dal treno e lasciato su un binario morto. Ci diedero anche un pane ogni sette. Durante la notte sentimmo che il nostro vagone veniva riagganciato e riprendemmo ad andare per l'altra parte della notte. Il luogo dove ci fecero scendere portava una scritta in tedesco: «Lamsdorf», ma non era certo in Germania. Forse un angolo dell'Europa tra Moravia, Polonia e Ucraina? Forse eravamo in Galizia? O in Slesia? Il Lager, lo ricordo bene, portava il numero «344» e mal conobbi luogo plìi triste e desolato.. Vi giungemmo dopo una marcia faticosa, trascinando i piedi nella strada polverosa mentre il vento scuoteva la primavera dagli alberi. Entrammo; e dopo averci contati, ricontati e ancora contati ci spinsero in una baracca vuota e spoglia. Vedemmo cose, che ogni tanto ricompaiono come in una nebbia d'incubi. Come quel gruppo di una trentina di prigionieri sicuramente italiani che giunse un'ora dopo di noi: erano usciti dalle miniere di carbone e solamente gli occhi erano bianchi; di un bianco terripile, spento e senza luce, come senza suono erano le bocche e magrissimi i corpi. Andammo a raccoglierli nella baracca delle docce per caricarli sul carro del morti. Erano leggerissimi. Un bastone Questo campo «344» non era esteso e nemmeno organizsato e rigoroso come il Lager J-B della Masuria dove ci avevano immatricolato, fotografato, prese le impronte digitali (e noi non aderito alla Repubblica Sociale). Qui il comando e i soldati tedeschi vivevano appartati; solamente una coppia di tedeschi armata con pistole mitragliatrici girava annoiata tra gli spazi delle baracche dove il vento mulinava sabbia e festuche. Gli altri stavano fuori, con le mitragliatrici, e la sorveglianza interna era esercitata da ex soldati russi che avevano sul braccio sinistro una fascia (verde? bianca?) e nella mano destra un bastone. Non c'erano impianti per V acqua e si attingeva a due pozzi, uno per noi e uno per i russi, scavati nello spiazzo della conta. Ma anche l'acqua era morta e lasciava nella bocca sapore di limo e sabbia. Non esisteva neanche la baracca per le latrine e al bisogno si andava all'orlo di una fossa scavata lungo i reticolati; l'erba che cresceva stentata negli spasi non calpestati era secca e gialla e nòh'trovui specie mangiabili. La sera del nòstro arrivo i ■guardiani russi vennero a prendete otto di noi che poco dopo ritornarono portando a spalla, su quattro stanghe, quattro mastelli di patate lessate che posarono' nel mezzo della baracca. Sema litigare e senza ingorghi riuscimmo a imporci una certa disciplina e a dividerci le patate che poco dopo quasi tutti vomitammo perché guaste. Il pane, umido, con tracce di paglia, ammuffito e rosicchiato dai topi, ci veniva consegnato al mattino dopo la conta che avveniva nel grande piazzale ventoso. Questa operazione era sempre molto lunga perché conta e riconta, a file di cinque, di sette, di dieci andava a finire che i guardiani russi perdevano il numero che il caporale tedesco, come un dio, aspettava sotto l'ombra dell'unico albero da dove pendeva la forca. In questo frattempo qualcuno di noi.cadeva svenuto per la fame e dieci prigionieri italiani e dieci prigionieri russi, sotto scorta, tiravano i due carri del morti sostando davanti a ogni baracca. I nostri compagni e i prigionieri russi che durante la notte avevano finito le loro pene, venivano spogliati nudi, caricati sul carro e portati nelle grandi fosse fuori dai reticolati, in fondo al Lager, dove incominciava il bosco. Scaricati laggiù venivano aspersi con palate di calce. Forse è questo il luogo e i fatti che il contadino polacco Henryk Baranoskì testimoniò al procuratore del tribunale della Circoscrizione di Lublino il 12 aprile del 1948: «... Circa il trattamento fatto al prigionieri faccio presente che la mortalità era molto alta a causa della fame che pativano e delle malattie infettive... In un primo tempo i cadaveri -venivano traspor- tati dentro casse o su tavole; poi i tedeschi si servirono di grossi carri con le fiancate alte trainati da quattro cavalli. Dopo che era stata costruita una strada1 che portava dal campo al luogo della sepoltura erano gli stessi prigionieri a trascinare 1 carri... Io ho visto le fosse perché mi sono recato sul posto quando non c'erano le sentinelle e ad ogni modo col pretesto di condurre la mucca al pascolo...» (Le tombe 1 dell'Armlr, di Jacek Wilceur). Per nostra fortuna non restammo tanto tempo al «344» perché dopo un mese chiamarono il nostro gruppo nello spiazzo della conta dove ci fecero spogliare nudi come vermi su un'unica fila. Un caporale teneva un registro dove erano segnati i nostri numeri di matricola mentre un sergente ci esaminava uno per uno tastandoci le braccia e dandoci un pizzicotto sulle natiche con la mano guantata. Al riscontro dei sintomi dava la sentenza: uno, due o tre. Capii subito cosa volessero dire con quella classificazione che il caporale segnava scrupolosamente accanto ai nostri numeri: lavori pesanti, lavori leggeri e fine nel Lager. Quando il sergente mi giunse davanti cacciai fuori il petto e tentai di gonfiare i muscoli; osservò anche una cicatrice che ho sulla caviglia sinistra e io osai dire «Russland». Sentenziò uno, e forse fu la mia salvezza. Questo accadeva nel maggio di quarantanni fa, ed è la prima volta che ne scrivo pubblicamente. Alcuni anni or sono mi interessai per conoscere il nome di quel «344» e venni a sapere che in quella località, dopo che furono allontanati, o morti, i prigionieri italiani e russl.vennero rinchiusi i superstiti della rivolta nel Ghetto di Varsavia. ,Uno. solamente usci vivo,t&ji poeta che al Lager «344» dedicò un poema. . . Mario Rigoni Stern

Persone citate: Henryk Baranoskì, Jacek Wilceur, Mario Rigoni Stern, Moravia, Sema

Luoghi citati: Europa, Galizia, Germania, Lublino, Polonia, Slesia, Ucraina, Varsavia