Requiem per il romanzo storico di Oreste Del Buono

Requiem per il romanzo storico SONO TORNATI DI MODA I PERSONAGGI VERI NEI RACCONTI PIÙ' FINTI Requiem per il romanzo storico Perché gli italiani non si distinguono più in un filone della narrativa in cui possono vantare notevoli successi a partire addirittura dai «Promessi sposi» - Tommaso Grossi, Cesare Cantù, Massimo d'Azeglio e Giuseppe Rovani erano, in fondo, come gli attuali Ken Follett, Robert Ludlum, Brian Garfield e Morris West - La condanna di Alessandro Manzoni - Siamo troppo manzoniani o cerchiamo scuse? Qualche giorno fa mi è co-, pìtato di parlarvi su queste stesse colonne del fenomeno massicciamente rappresentato in libreria, attraverso gli «Omnibus» Mondadori, dal ritorno di moia del personaggi veri nei romanzi piti finti. Ho citato gualche autore: l'australiano Morris West, i russi emigrati negli Slati Uniti Topol e Nez-. nansky, l'inglese Ken Follett. Ne avrei potuto fare tanti altri: l'inglese Frederick Forsylh, l'americano Robert Ludlum, il francese Gerard De Villiers, l'americano Brian Garfield eccete- .ra. La domanda, quindi, è spontanea e scontata insieme: e noi italiani, al solito, niente, slttl e mosca? Il fatto è abbastanza singolare, perché, mentre nella romameria in genere, come si sa, l'Italia non ha una gran tradizione da vantare,' nel filone dello •storico misto», invece, un tempo fece faville. Ma si, basta andare a controllare. Troviamo addirittura un eccesso di romanzi storici, a partir proprio dal capolavoro della letteratura italiana I promessi sposi di cui Alessandro Manzoni presentò la prima edizione nel 1827. E fu subito best-seller. 1 sottoscrittori erano milleseicento, ma in pochi giorni nella sola Milano se ne spac¬ ciarono, il verbo è dell'epoca, oltre seicento copie. E dalla Bibliografia Manzoniana del Vismara risulta che all'anno 187S le edizioni italiane eran già centodiciotto separate, senza contare, dunque, le ventisei figuranti nel complesso delle opere varie manzoniane. Alla stessa data, le edizioni francesi eran giù diciannove, diciassette quelle tedesche, dieci le inglesi e ce n'eran pure in spagnolo, greco, olandese, ungherese, russo, e cosi via. Con Scott L'industria culturale solo ora si chiama in questo modo, ma allora era presente e operante, come sempre, del resto, dall'invenzione della stampa. Si favoleggiò, dunque, sulle gazzette di un magnanimo incontro a Milano tra il re acclarato del romanzo storico, l'inglese Walter Scott, e il suo emulo italiano, Alessandro Manzoni. Schermaglie del Manzoni: «Se 1 miei Promessi sposi hanno qualche pregio, sono opera vostra, tanto son frutto del lungo mio studio sul vostri capolavori Complimenti dello Scott: «Or bene, in questo caso dichiaro che 1 Promessi sposi sono 11 mio più bel romanzo...». E' vero che Giosuè Carduc¬ ci nel 1873 ghignava sulla veridicità dell'incontro e sulla piccineria degli italiani che credevano alle gazzette. Ma, anche se l'incontro non c'era stato e soprattutto non c'era stato lo scambio di sdilinquimenti, via, faceva bene creder che ci fosse stato, e così gli indaffarati imitatori del Manzoni si lusingavano di imitare uno che aveva imitato un altro: mal comune, insomma... Certo, di imitatori, il Manzoni ne ebbe un'orda: il Bazzoni, il Cantù, anzi due Cantti, Cesare e Ignazio, il Corcano, il D'Azeglio, il Grossi, il Rovani, il Varese, tutti li a comporre Angiolo Marie, Ettori Fieramosche, Margherite Pusterle, Lamberti Malateste, Annibali Porroni, Valenzle Candtani, Manfredi Pallavicini, Cento anni e roba del gènere. Ma il Manzoni già nel 1828 aveva cominciato a scriver qualcosa sul romanzo storico, che dapprima aveva pensato come una lettera a Wolfgang Goethe che aveva ammirato I promessi sposi, ma ne aveva disapprovato l'eccesso di storia. Poi nel 1831 il Manzoni riprese lo studto interrotto, e, alla fine, con la solita mancanza di fretta, pubblicò nel 1851, nella prima edizione delle sue Opere varie il fondamentale Del romanzo storico e, in genere, de' componimenti misti di storia e d'invenzione. «Siamo fritti...» scrisse il romanziere storico Tommaso Grossi al romanziere storico Cesare Cantii. Aveva tutta l'aria di un requiem. Si capiva abbondantemente che, dopo aver pensato e scritto e poi tenuto li a covare, un simile saggio, il Manzoni non si sarebbe piti provato nel romanzo storico. «Il romanzo storico va soggetto a due critiche diverse; e siccome esse riguardano, non già qualcosa d'accessorio, ma l'essenza stessa di tal componimento; cosi l'esporle e l'esaminarle ci pare una bona, se non la migliore maniera d'entrare, senza preamboli nel vivo dell'argomento...». Il Manzoni constatava che gli uni accusavano il romanzo storico di non tener ben distinto le cose realmente accadute dalle cose puramente inventate, il che significava toglier credibilità al tutto; gli altri, antiteticamente, lamentavano la mancanza d'unità tutte le volte in cui elemento reale ed elemento invano espresmentè'éihttHti e, dunque. Esaminate due accuse'il Manzoni decretava che realtà e invenzione sono cosi strettamente intrecciate nel romanzo storico che non è possibile di■ stlnguerle, se non scompaginandolo con contìnue interruzioni e in pratica distruggendolo; e che nel romanzo storico l'unità auspicata non può esistere, come appunto testimonia la stessa denominazione di romanzo storico, che individua due componenti distinte. Cosi dava ragione e torto agli uni e agli altri, approdando a una sua terza verità: «Chiedono cose giuste, cose indispensabili: ma le chiedono a chi non le può dare. Ma se fosse cosi, ci si dirà ora, sarebbe in ultimo il romanzo storico che avrebbe torto per ogni verso. Questa è appunto la nostra tesi. Volevamo dimostrare, e crediamo d'aver dimostrato, che è un componimento, nel quale riesce Impossibile ciò che è necessario Del resto, la prima vittima della verità del Manzoni era stato lui stesso. Alla fine del capitolo XXXII della prima edizione dei Promessi sposi, parlando della peste, e in particolare dei processi agli untori di Milano, aveva scritto: «C'è parso che la storia potesse esser materia d'un nuovo lavoro. Ma non è cosa da uscirne con poche parole; e non è qui il caso di trattarla. E oltre di ciò, dopo essersi fermato su que' casi, il lettore non si curerebbe più certamente di conoscere ciò che rimane del nostro racconto. Serbando però a un altro scritto la storia e l'esame di quelli torneremo finalmente a' nostri personaggi...». Nella peste Nel 1829, tra la prima parte e la seconda parte, dunque, della stesura del saggio Del romanzo storico, il Manzoni aveva scritto La storia della colonna Infame partendo da autentici e inconfutabili documenti seicenteschi mentre, invece, in I promessi sposi era partito dall'immaginario manoscritto seicentesco dell'Anonimo. Nelle sue nuove pagine, puntigliosamente spietate contro i magistrati persecutori degli untori e fervidamente pietose con gli ostaggi concessi dalle autorità al furore del popolo sconvolto dalla peste, il Manzoni si era sforzato di essere sempre e comunque dalla parte della storia. Ma aveva pubblicato la Storia della colonna infame solo nel 1842, in appendice alla nuova edizione riveduta di I promessi sposi. Pur essendo stato fortuitamente autore di un best-seller, fortunatamente per lui e per noi ignorava, o voleva ignorare, le leggi della concorrenza editoriale e le viltà del manierismo commerciale, l'obbligo alla ripetizione del prodotto fortunato. Cosi, aspettando il 1842 per pubblicare La storia della colonna infame, aveva lasciato ad altri autori tutto il tempo per raccogliere ed esitare i documenti da lui consultati per primo, e, intanto, aveva innocentemente rinfocolato nel pubblico l'illusione di un imminente I promessi sposi numero 2, preludente magari a unn. 3 o4. Disfatta Una decente dichiarazione iniziale in La storia della colonna infame non era stata sufficiente a medicare la mancata novità dei testi e la mancata offerta romanzesca: «In una parte dello scritto precedente l'autore aveva manifestato l'intenzione, di pubblicare la storia; .ed. è questa che. presenta ai pubblico non, senza vergogna, sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non altro, e di mole corrispondente. Ma, se il ridicolo del disinganno deve cadere addosso a lui, gli sia permesso almeno protestare che nell'errore non ha colpa, e che, se viene alla luce un topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i monti Insomma, La storia della colonna Infame era stata, editorialmente parlando, un flop e, a maggior ragione, dunque, dopo aver dato l'esempio, proponendo se stesso come prima vittima delle site convinzioni, il Manzoni si senti di pubblicare nel 1851 l'intransigente trattato Del romanzo storico. Lui aveva già dato. D'accordo, ma dobbiamo credere che l'esempio_del Manzoni, con relativa esortazione agli autori a dedicarsi maggiormente alla storia, lasciando perdere l'invenzione, sia stata rovinosa per l'unico filone della romanzeria in cui si sia mai affermata la nostra letteratura? Dobbiamo credere che gli scrittori italiani, anche quelli di mero consumo, nutrano una cosi spiccata fedeltà per il Manzoni da non azzardarsi neppure a reggere il passo con la produzione straniera? Dobbiamo proprio credere che tutti sian manzoniani dalle nostre parti e che questa sia una squisita dimostrazione di ossequio della tradizione e di indiscutibile buon gusto, non una qualsiasi giustificazione per la poca voglia di lavorare, dato che un romanzo storico, appunto per la sua natura non naturale, ma ambigua e dialettica, un minimo sforzo di preparazione e di esecuzione, lo richiede sia pur per conseguire il piti modesto dei risultati? Quando parliamo dei West, Topol e Nesnansky, Follett, Forsyth, Ludlum, Garfield, De Villiers, è come se parlassimo del Bazzoni, Cantti uno e due, Corcano, D'Azeglio, Grossi, Rovani, Varese di allora. Solo che oggi, qui, non disponiamo degli equivalenti. L'immaginazione vacilla e lo stile pure. Dopo l'exploit di Manlio Cancogni sotto le mentite spoglie d'arte di Giuseppe Tugnoli con Adua (Rizzoli, 1978), Corrado Augias con Quel treno da Vienna (Rizzoli, 1981) e II fazzoletto azzurro (Rizzoli, 1983), ci pare l'unica felice eccezione. Per il resto,,a tener botta, nella disfatta dei romqrurlerì .sono i giornalisti che, forseperché non riescono a orizzontarsi nelle pagine deplorevolmente burocratiche e oscure, irte d'incisi e di escrescenze, spesso non consententi neppure di decifrare la fine dei periodi, degli storici italiani, si industriano a ricostruire almeno le cronache dei fatti storici e arrivano quasi a sentirsi tentati dall'epopea. Oreste del Buono Alessandro Manzoni e lo scrittore inglese Ken Follett

Luoghi citati: Italia, Milano, Slati Uniti Topol, Varese, Vienna