L'Eden perduto di Raffaello

L'Eden perduto di Raffaello I CINQUE SECOLI DALLA NASCITA NELLA CELEBRAZIONE DELLA GRANDE MOSTRA A FIRENZE L'Eden perduto di Raffaello FIRENZE — II Comitato nazionale che ha organizzato le - celebrazioni per i cinque secoli dalla nascita di Raffaello si e/a imposto una regola ferrea: non trasportare da un luogo all'altro i dipinti dell'artista, ma esporli là dove sono custoditi per non far correre loro inutili rischi. . Ne è venuta una serie smisurata di mostre, simposi, banchetti intellettuali dove tuttavia il grande assente era proprio lui, il divino Urbinate, o almeno scarsamente presente con la carne e le ossa della sua pittura. Col rischio di snervare l'attesa del vasto pubblico, e di lasciarlo , poi impreparato, o, peggio ancora, ormai saturo e quindi distratto, quando finalmente si è aperta la mostra «monstre», ricca delle ben diciotto opere autografe (seppure taluna realizzata con l'aiuto della bottega) che Firenze si vanta di conservare, battendo con ciò un record assoluto che nessuna altra città al mondo può contestarle. Eccola allora, la grande abbuffata, appena inaugurata nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, • con il corredo di cinquanta disegni quasi tutti di mano delI'Ur- ' binate, e con sezioni volte a do.cimentare i fondamentali restauri condotti per l'occasione.' Una mostra «acqua e sapone», che infatti è costata appena un mezzo miliardo di lire (nella cifra entrano anche le esposizioni «a latere» su Raffaello architetto e sui rapporti col grande rivale Michelangelo. 11 catalogo edito dall'Electa è a cura di Mina Grcgori per i dipinti, di Annamaria Petrioli e Sylvia Ferino Pagden per i disegni, con una nota di Umberto Baldini sui problemi del restauro). Anche il titolo, «Raffaello a Firenze», calca l'accento su questa straordinaria presenza fisica • di opere, e non è da leggere nel senso restrittivo di un'analisi rivolta solo agli anni (1504-1508) in cui l'artista soggiornò quasi in permanenza nella città del giglio. Infatti fra i diciotto dipinti, alcuni documentano le fasi umbro-marchigiane della sua carriera (Urbino, Perugia), altri il posteriore glorioso periodo romano, fino alla morte (1520). E così possiamo chinarci sul mistero affascinante di un solo autore che raccoglie in sé e poi ta alla perfezione fasi tra loro . pressoché antitetiche, con un' incredibile capacità di crescere di trasformarsi, di afferrare . volo ogni suggerimento, pur mantenendo un invidiabile filo di coerenza e di continuità. Il primo Raffaello, tra Umbria e Firenze, concentra, sublima tutte le doti di una classicità primitiva, di un Quattrocento che per dirla con uno storico, oggi troppo dimenticato, il Wolfflin, si svolge all'insegna delle forme «chiuse», lineari, inondate da una luce metafisica da paradiso terrestre. «Questo» Raffaello è il primo a iscriversi nella categoria ideale del «prcraffaellitismo», cioè di un'arte deliziosamente acerba, fatta di magrezza e di castità spirituale. Tutto il contrario delle opulenze e della maestria naturalistica che poi il Raffaello romano saprà acquisire e consegnare ai secoli successivi, in una corsa che arriva quasi d'un fiato al realismo-ottocentesco. Se l'arte contemporanea non ha mai amato il Raffaello maestro insuperabile di verosimiglianza e di disinvoltura quale apparirà nelle Stanze vaticane, tuttavia molti esponenti delle avanguardie, in una rivolta che dura ormai da due secoli, hanno potuto fare appello al Raffaello giovane, alzare la sua bandiera, come talvolta, nella storia delle dinastie, si sono visti i congiurati schierarsi dalla parte di un rampollo giovane contro il tiranno troppo cresciuto e autoritario. Dai Nazareni ai Preraffaelliti propriamente detti ai Simbo¬ listi ai Metafisici, per finire addirittura con certe forme attuali di citazione del musco, l'arte dei nostri tempi ha avuto tenerezze e attenzioni, ma solo per quel divino adolescente non ancora raggiunto dalla corruzione del «papismo» (diranno gli storici di tradizione nordica, i più feroci contro la classicità raffaellesca degli anni maturi). 11 «chiaro» e lo «scuro» sono i tratti distintivi dei due Raffaello. Si veda, a Firenze, il Ritrailo di Elisabetta Gonzaga: il mezzo busto domina in primo piano, mentre il paesaggio, dietro, è delincato con la stessa cura dei monili, delle collane che ornano la scollatura alaba¬ i e r e ù fo fiil o ea e a¬ strina della nobildonna. Tutto è visto come sul fondo di uno specchio d'acqua, quando è di assoluta trasparenza, e come quando certi reperti fossili vengono conservati in blocchi di resine di perfetta trasparenza. Caratteri, questi, che valgono anche per i Ritratti dei coniugi Doniv tra le prime committcn7x: eli rjlicvo che l'Urbinate ebbe, poco dopo essere giunto a Firenze. Si dice che vi si recasse anche spinto dalla fama crescente di Leonardo. Ma per il momento il giovane coglie, della ritrattistica leonardesca, solo i tratti in cui quella a sua volta era crede di un Quattrocento duro e, disegnato, lon¬ tano ancora dalle morbidezze dello sfumato. Basti vedere la soluzione di compromesso che Raffaello adotta nel rendere le chiome dei coniugi Doni. Leonardo non si stancava di predicare che i capelli dovevano «scherzare al vento», in luogo di essere chiusi entro contorni netti. Raffaello, tentando di farsi docile allievo, in parte li «apre», ma inseguendoli a uno a uno in punta di pennello, cosi come fa per gli alberelli della quinta paesaggistica, che è ancora a livello di monile, di gioiello aggiunto all' avvenenza del protagonista umano. Conviene ricordare che il chiarore metafisico dei Ritratti Doni è ora valorizzato al giusto dalla miracolosa ripulitura, mentre un notissimo capolavoro come la Madonna del cardellino, esposta lì di fronte, è gravato sotto tristi patine giallastre che ne ottundono le mosse di mirabile scioltezza. In realtà, il dipinto dimostra che i corpi raffaelleschi stanno crescendo, mettono su floride carni, come risulta dai due putti, in questa e in altre celebri Madonne sparse per il mondo. Ma una linea inesorabile li chiude in una specie di corsetto imposto dalla tirannia della moda. I corpi si torcono in una ginnastica di straordinaria disinvoltura, ma pur sem¬ , e e e pre rispettando limiti invalicabili, attenti cioè a non pesare, a non fai apparire ancora l'opulenza delle carni, come falsi magri che trattengono il prorompere delle muscolature. ! Un'altra Madonna altrettanto celebre, quella del Granduca, segna invece il punto esatto in cui Raffaello capisce a fondo la lezione leonardesca. Anche in quel caso egli era partito col proposito di trattenere le carni delle due figure entro la solita corazza lineare, con uno sfondo «chiaro» e per di più architettonico che impediva ogni evasione. Ma poi (l'esame radiografico lo ha rivelato), egli si è deciso al grande passo, e ha trasformato il fondale in un muro di tenebre, inquietanti, corrosive, che intaccano senza rimedio i contorni, vale a dire le presunzioni dell'uomo, e lo portano a fare i conti col cosmo. Quel fondo «scuro» è già idealmente appartenente al periodo romano, benché tutto lasci pensare che Raffaello abbia dato corso al suo pentimento quando ancora si trovava a Firenze. Ma è «romana», anche nelle date, la celeberrima Madonna della seggiola. E qui non ci sono dubbi, le carni della Madonna, del Bambino, del S. Giovanni debordano dai confini paffute, rosee, concentriche, quasi fossero loro a imporre il formato a tondo del dipinto, invece di subirlo passivamente. E' finito il dominio della linea e della superficie, tutto, or?, si fa profondo, o meglio ancora sferico, emergente da diffusi mari di tenebre che graduano, ammorbidiscono, modellano. Inoltre si dà una perfetta osmosi tra la carne viva dei corpi (braccia, gote) e la pelle artificiale delle stoffe. La sostanza organica degli uni conferisce | calore alle altre, come se divenissero prolungamenti delle epidermidi naturali, e quindi in esse circolassero linfe provvidenziali capaci di riscaldarle, di renderle consistenti e carnose, infinitamente sensibili e reattive al tatto. codinomtrvodoretiscbrialimeeiLppmaftScasirqpmnd Ma il culmine dell'integrazione carni-abiti è il Ritratto di donna detta la Velata, che, come si sa, fa il paio con la Fornarina, di cui a dite il vero proprio una delle manifestazioni del centenario ha messo in dubbio l'autobiografia. Nessuno può osare di farlo per la Velata, tanta è la genialità delle pieghe dell'abito: pieghe che si avvolgono e si intricano con la grandiosità di un sublime fenomeno naturale; come, per esempio, le seraccatc di un ghiacciaio, di cui sembrano offrire certi splendori freddi; mentre d'altra parte dalla centrale di vita che è costituita dal volto e dalla scollatura della donna emana un flusso di calo¬ re, quasi una vampa. Ma in fondo la Velata mantiene gli schemi quattrocenteschi, cioè lo svettare del mezzo busto contro uno sfondo unitario, anche se Raffaello è pronto a «voltare» il tema del nuovo linguaggio infinitamente sfumato e «aperto» proprio dell' età moderna. In quegli anni egli sa andare ben oltre, come indica il celeberrimo Ritratto di Leone X con due cardinali. Un passo di incredibile audacia appunto sulla strada della verosimiglianza e della disinvoltura appunto «moderne» (come se fossimo di fronte all'inquadratura di un film di Visconti). Sono ormai remote le castità arcaiche coltivate appena pochi anni prima, qui tutto si scalda, si arroventa, diviene perfino impudico, come sta a dimostrare il lusso di quei velluti, di quelle stoffe troppo carnali. Il paradiso terrestre è definitivamente perduto, siamo entrati nelle vicende di un cosmo fatto di blandizie, di seduzioni, ma anche di corruzione e di morte. Renato Barrili Raffaello. La Madonna del granduca (particolare) segna una delle tappe dell'evoluzione del maestro. A destra: ritratto di donna detta «La Velata», emergente dall'abito sontuoso

Persone citate: Annamaria Petrioli, Elisabetta Gonzaga, Leone X, Mina Grcgori, Pagden, Renato Barrili Raffaello, Sylvia Ferino, Umberto Baldini, Visconti

Luoghi citati: Firenze, Perugia, Umbria