Pioggerella di mezzo inverno di Mario Pirani

Pioggerella di mezzo inverno Pioggerella di mezzo inverno «L'economìa italiana ha assolutamente bisogno di una salda intesa tra le parti sociali. Un autunno sema intesa rappresenterebbe un potente elemento di freno allo sviluppo»: cosi il 20 luglio recitava il comunicato del Consiglio dei ministri che, prendendo atto delle trattative fra Confindustria" e sindacati, s'impegnava — nel caso avessero avuto successo entro la data indicata, e cioè prima degli scatti novembrini della contingenza — ad accompagnare il passaggio della scala mobile da tre a sci mesi con un recupero del fiscal drag. Ebbene, non solo l'autunno è passato invano — facendo decadere in linea di principio, se non di fatto, l'obbligazione tributaria — ma le stesse attese di una riforma globale delle relazioni industriali, a conclusione di uno slabbrato negoziato, sono per ora tramontate, sia per la scarsa volontà delle parti sia per gli improvvidi interventi del governo. Aver usato il contratto del pubblico impiego come una leva per sollecitare gli industriali a cedere, prefigurando al centesimo i termini dell'eventuale accordo sulla scala mobile e introducendo la riduzione di orario a 36 ore, ha innestato una reazione di rigetto e tramutato l'invito a far presto in una non neutrale scelta di campo. Ma questo sarebbe il meno se non si fosse, in tal guisa, posto al centro dei l'apporti sindacali in Italia il trattamento dell'impiego pubblico, facendone il punto di riferimento generale per tutte le categorie, cui assolveva finora il contratto dei metalmeccanici dell'industria privata. La svolta imposta dal governo è rivelatrice di una. linea che evita sistematicamente di fare i conti con le realtà del mercato internazionale in cui il nostro Paese opera: per questo si prende a parametro un settore — quello dell'amministrazione statale — non direttamente a confronto con l'estero e i cui costi vengono scaricati sul bilancio pubblico. Il tutto s'inquadra nel permanere di un sistema di indicizzazioni i cui effetti sono solo scalfiti — uno 0,3% di diminuzione del costo del lavoro — dalle modifiche apportate e che rappresenta un'anomalia tutta italiana, dato che i nostri concorrenti in Europa, negli Stati Uniti, in Giappone o non l'hanno mai avuto (in Germania è proibito per legge) o se ne sono liberati. Parole vane ha ancora una volta pronunciato il governatore Ciampi il quale, non più tardi dell'altro giorno, ribadiva che «la vittoria sull'inflazione richiede metodi di determinazione del livello, della struttura, dei ventagli delle remunerazioni che meno si affidino a meccanismi automatici e siano più rispettosi degli andamenti della produttività complessiva e aziendale e dei diversi gradi di professionalità». Il fatto è che sindacati e forze politiche non riescono ad immaginare un'inversione di tendenza che sposti l'impegno dalla difesa a breve termine dei lavoratori occupati e, rilanciando lo sviluppo, aggredisca la disoccupazione. Di contro il divario d'inflazione di 4-5 punti in rapporto agli altri Paesi industriali e l'aumento anche per oneri indiretti del costo del lavoro (cresciuto nell'85 dell'I 1,7 in Italia, del 6 in Germania e in Francia, del 6,5 in Usa e del 4 in Giappone) fa si che la maggiore domanda interna italiana favorisca le produzioni più a buon mercato dei nostri concorrenti, creando, con i nostri soldi, posti di lavoro oltre i confini. Sembra un ragionamento elementare, eppure non è riuscito a penetrare e a informare del suo spirito pratico le trattative sindacali, mentre il governo, cui spettava il compito di sta¬ bilire con tenace determinatezza il quadro di una politica dei redditi in cui inserire la riforma della busta paga, ha finito per impasticciare vieppiù le cose. Come considerare altrimenti la questione del fiscal drag, tramutatasi per istrada da condizione a tempo (l'accordo entro novembre) in una specie di premio finale una tantum, quasi una distribuzione benefica di borbonica memoria? E quando si è parlato di 110.000 lire a testa, perché non si è fatta una semplice operazione aritmetica da cui risulterebbe che i 1450 miliardi stanziati all'uopo (sottratti, per inciso, agli utenti e all'industria con la maggiore imposta sulla benzina), divisi per 20 milioni di lavoratori e pensionati danno solo tra le 65 e le 70.000 lire procapite? Non sarebbe, quindi, assai più conveniente per tutti utilizzare questi miliardi, assieme agli altri 6500 previsti a regime, per una diminuzione permanente delle aliquote Irpcf, come propone saggiamente Visentini? Non c'è d'altro canto da illudersi che questa irrisoria pioggerella una tantum plachi sul nascere il serpeggiante anelito di una rincorsa salariale che il mancato accordo è de¬ stinato, comunque, ad alimentare. Da questo punto di vista ci sembra di breve momento la speranza del mondo imprenditoriale secondo cui, sgombrato il campo — sia pure con dichiarazioni unilaterali — dal contenzioso sulla scala mobile, non siano da prevedersi prossimi movimenti rivendicativi. E' ben probabile che gli animi non si scalderanno per scarsamente sentite diminuzioni d'orario, ma altrettanto poco ascolto troveranno i sindacati, oggi mortificati ma anche liberi da ogni vincolo e tetto, quando chiederanno semplicemente più soldi? Mario Pirani

Persone citate: Ciampi, Visentini

Luoghi citati: Europa, Francia, Germania, Giappone, Italia, Stati Uniti, Usa