Le parole maltrattate da Falso Movimento
Le parole maltrattate da Falso Movimento Al Nuovo «Coltelli nel cuore» tratto da Brecht Le parole maltrattate da Falso Movimento TORINO — Ah sei giovani attori del teatro di ricerca sapessero recitare! Se sapessero correttamente porgere la parola teatrale con una fonatone limpida, una dizione corretta, un giusto equilibrio dei pieni e del vuoti, delle pause e degli accenti... Scusate lo sfogo, ma vengo da Coltelli nel Cuore, quarto spettacolo del gruppo Falso Movimento, coprodotto dal Teatro dell'Elfo, presentato ai primi di luglio al festival di Polverigl, ancora per stasera al Nuovo, ospite del Cabaret Voltaire. Sarebbe un piccolo spettacolo quasi perfetto, se la parola, appunto, avesse la stessa evidenza espressiva che hanno suono e immagine, le due componenti fondamentali della -scrittura scenica* di Mario Martone, il demiurgo dell'interessante compagine. Martone 'riscrive* /"Opera da tre soldi di Brecht, nel senso die riutilizza la stringente tempistica della vicenda, quel procedere tutto brechtiano per siparietti e stacchi brucianti, ma poi la cala in tutt'altra epoca e contesto, una periferia suburbana Anni Sessanta (Pasolini?) e un assolato paesaggio agrario da Middle West Anni Cinquanta (Nicholas Rag?). La storia di Peachum e Polly, Machie Messer e Tiger Brown Una scena di «Coltelli nel cuore» proposto da Falso Movimento na evidenza, di un lirismo «povero» ma intenso: un uomo che dorme sull'amaca, la coppia che s'avvince nel semibuio di un'auto scassata, la rissa nel grigtazzurro di uno spiazzo notturno, l'attesa e lo spasimo di una ragazza di vita dinanzi ad un campo di grano tagliato, di sghembo, da una pista verso l'infinito sono alcuni delle sequenze spoglie ma incisive e pregnanti di cui lo spettacolo si compone e, quasi, si nutre. E la colonna sonora che le contrappunta è un piccolo miracolo di adesione a quel mondo, è il suo secondo respiro, in cui jazz, rock, musical americano, opera lirica verista si fondono Purtroppo ci sono le parole, non più di una cinquantina di battute che Martone ha tratto da varie opere brechtiane e connesso in un'esile partitura: ma dette cosi male, cosi provvisoriamente pronunciate, senza intonazione né palpito, con una dilettantesca approssimazione (non mi si venga a dire che è premeditata, è semplicemente assenza di debito artigianato) da compromettere tutto, a mio modesto avviso: perché la parola a teatro è un'amante esclusiva, non accetta trascurataggini o maltrattamenti. Guido Davico Bonino diventa cosi la tragedia della solitudine fonda di personag-t gt che si tradiscono per pura fatalità: figure archetipe di una disperazione vecchia e nuova, in cui Germania, Italia, America sono province di uno stesso Paese, il Paese dello sconforto e dell'illusione, dello sgomento e del sogno. Le immagini che Martone idea per tradurre visualmente questa altalena di opposte passioni e pulsioni sono, anche stavolta, di una cristalli-
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