Un'antica frattura di Sergio Quinzio
Un'antica frattura Un'antica frattura La solennità della cerimonia d'apertura del Sinodo dei vescovi, che ha riportato intensamente alla memoria l'inizio, 23 anni fa, del Concilio Vaticano II, può aver destato in molli l'impressione di un evento di significato pressoché analogo. Ma la realtà dà ragione a coloro che ne sottolineano i limiti piuttosto stretti. Intanto, la rappresentatività dell'episcopato mondiale è ridotta, perché trattandosi di un Sinodo straordinario vi partecipano solo i presidenti delle Conferenze episcopali. C'è poi la fretta con la quale è stato preparato: mentre alla preparazione di un Sinodo ordinario si dedicano tre anni, l'annuncio di questo è stato dato dal Papa soltanto dieci mesi prima dell'inizio dei lavori. La decisione della convocazione sembra davvero nata all'ultimo momento. Circa un terzo degli episcopati non ha risposte al questionario sul ventennio postconciliare proposto dalla segreteria sinodale; e il tempo per esaminare le risposte pervenute era comunque pochissimo, tanto che il Sinodo ha preso l'avvio senza che fosse ancora definito il piano dei lavori. Ma sarà insufficiente anche il tempo previsto per il suo svolgimento: appena due setti mane per affrontare in tutte le sue implicazioni la storia di un travagliato ventennio. Soprattutto, il Sinodo, che viene presentato come espressione di collegialità nel governo della Chiesa, è soltanto consultivo, e il Papa può, se vuole, disattenderlo del tutto. L'idea di Sinodo consultivo ha certo una parentela estremamente lontana con quella di collegialità episcopale. Tenuto conto dei recenti orientamenti al vertice, testi moniati in particolare dalle recenti prese di posizione del cardinale Ratzinger, appare giustificato il sospetto che s'intenda archiviare con una certa fretta l'eredità del Concilio. Archiviare, non dico cancellare. L'intenzione pare proprio quella di delimitare — fin qui e non oltre — la prospettiva della recezione del Vaticano Secondo. L'ultimo Concilio insomma, sentito anche al di fuori della Chiesa come un evento pentecostale, come una straordinaria effusione dello Spirito per rinnovare la Chiesa e aprirla finalmente al grande, difficile (c a lungo temuto) confronto con il moderno — cosi l'aveva annunciato Giovanni XXIII — viene ormai ricondotto nell'alveo di ciò che è ordinario. Un momento fra i tanti, una tappa lungo la strada di seni pre. ormai da storicizzare, da verificare, e anche da correggere, da riadattare. Intorno a queste due letture del Vaticano II c'è oggi nella Chiesa, e anzitutto tra i vescovi, divisione e profondo dissenso. Si riaccende in questa forma il dissidio mai sanato (le stesse decisioni conciliari furono non di rado frutto di compromesso) fra «conservatori» e «progressisti». In attesa del Sinodo si sono avute polemiche anche molto aspre, che hanno coinvolto i personaggi più ce lebri, dal cardinale De Lubac a von Balthasar, da Chenu a Kùng. Può il Sinodo, e in che modo, ricomporre la frattura che in definitiva è ancora quella del modernismo fra i due ultimi secoli? Per quel che è umanamente prevedibile, il meglio che ci si può attendere, date le premesse, è un non irrigidimento autoritario, un procrastinare ulteriormente la soluzione dei problemi che moderno e postmoderno impongono alla fede cristiana: ancora parziali aperture c pru¬ denti riserve. Sarebbe già qualcosa. Il rigido mantenimento delle posizioni tradizionali, quando non c'è più una cristianità né in senso sociale né in senso culturale, condanna la Chiesa all'inefficacia storica, alla quale non si sfugge cercando compensazioni sul piano di una sacralità spettacolare. Ma anche il dialogo con il mondo non è di per sé un rimedio. La stenografia del dialogo, che ancora poco fa riempiva di entusiasmo e di speranze molti, è stanca, ha manifestato i suoi rischi di confusione, di perdita di identità. Rendersi conto che questa è la situazione del cristianesimo nella storia, che le due «parti» a contrasto non sono semplicisticamente quella di chi ha ragione e quella di chi ha torto, sarebbe già molto. Di 11, forse, potrebbe cominciare un cammino vero, non illusorio, non velleitario in un senso o nell'altro. Sergio Quinzio
Persone citate: Chenu, De Lubac, Giovanni Xxiii, Ratzinger
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