I potenti e l'Avvocato di Mario Pirani

I potenti e l'Avvocato SEGRETI DELLA FINANZA IN DUE LIBRI I potenti e l'Avvocato Come seria/ avvincenti si succedono le storie giornalistiche del potere economico. Un nuovo genere letterario dedfcato, sia pure con canovacci e approcci diversi, sempre agli stessi personaggi, alle loro vicissitudini, alle loro biografie raccontate come spettacoli ricchi di suspense (anche se gli spettatori e, cioè, i lettori sanno già come andrà a finire), presentate con la seducente malizia di chi possiede la chiave per descrivere, però, non solo quel che è avvenuto sul proscenio, ma l'andirivieni, a volte discreto e più spesso convulso, che ha animato le segrete stanze sul, retro della scena. Gianni e Umberto Agnelli, Eugenio Cefis, Enrico Mattei, Cesare Romiti, Carlo De Benedetti, Roberto Calvi, Leopoldo. Pirelli e poi Cuccia, Carli, Rizzoli, Prodi, Bonomi e molti altri scorrono per queste pagine come «eroi», buoni o cattivi, glamour o mezzecalzc, capitani coraggiosi o misteriosi alchimisti di una story incompiuta, con l'ultimo capitolo buttato giù in tipografia per aggiornarla fino all'ultima puntata. ' Il canovaccio di questa Dallas nostrana si sdipana come una tclenoyela a puntate, con molti pezzi, tuttavia, di telegiornale, di colloqui e interviste in presa diretta, di documenti d'epoca, nell'assunto che i fatti parlino da soli e che, almeno in questa sede, non l'analisi oggettiva dei processi economici e imprenditoriali stia a cuore agli autori, quanto le motivazioni personali degli interpreti, le loro ambizioni, strategie di potere, inclinazioni di gusto, la cronaca più fedele possibile dei loro comportamenti. Saranno questi fattori a fornire più di tanti intelligenti studi, statistiche sofisticate e documentazioni accurate, l'interpretazione davvero rispondente alla realtà. * * Jfalct almeno, è, la. scommessa che si evince dalle due più .-recenti e appassionanti opere di questo filone narrativo: L'Avvocato di 'Qiuseppe Turani (ed. Sperling & Kupfer) e 11 Gioco dei potenti di Piero Ottone (ed. Longanesi). Due grandi reportage, l'uno più accentrato sulla Fiat, l'ai tro dove ruotano almeno tre primi attori, Agnelli, Cefis < Mattei. La narrazione in ambedue non è certo asettica, ma percorsa da una passione civi le, da un empito di parte che dà alla concatenazione dei fatti una logica intima e una «morale»: che crisi, degenerazione, < sconvolgimento delle norme istituzionali si riconducano al rapporto perverso tra-mondo della politica e mondo dell'impresa, alla vera e propria inva> sionc di campo reciprocamen te attuata, che se ha avuto nelle partecipazioni statali il terreno privilegiato d'incontro, non ha mancato però di coin volgere e ferire anche le aziende private. L'assunto in Ottone è suffragato dall'intreccio animatissimo, da un taglio divertente, il che non guasta, da un gioco delle parti in cui i «buoni» (visti con partecipe ammira zione, forse un po' troppo per ' le loro qualità di signorilità, tatto, ricchezza di famiglia, che per il loro ruolo effettivo), finiscono, dopo varie traversie, per avere la meglio sui «cattivi» (che sono anche mezzccalze, arroganti c arricchiti). Tutto bene, solo sii un punto sostanziale ci sentiamo, però, di dissentire: il giudizio su Enrico Mattei, considerato il promotore del processo degenerativo. Per quello che la nostra testimonianza può valere ci sembra che il fine del finanziamento ai partiti messo in opera da Mattei non fosse di verso da quello rSer motivi analoghi, anche se opposti, at tuato dalla Edison e da altri gruppi privati: era la logica, distorta ma realistica, di una imprenditorialità costretta contrattare col potere politicò. E Mattei, come Valerio, difèndeva la propria impresa (dal punto di vista di una gelosa difesa della sfera imprendito. riale, costi quello che costi, aziende pubbliche e private avevano logiche assai più vicine allora di oggi). E' dopo la morte di Mattei, con il declino dell'Eni e dell'Iri, che avviene il saltp nel peggio, con i partiti che s'impadroniscono direttamente delle aziende, piegano le rtgioni dell'imprenditorialità pubblica a fini y esclusivamente politici, asserviscono i manager di Stato ai loro voleri. Quando mai Mat-. tei avrebbe subito tali affronti ridotto l'Eni a un feudo da spartire? Nel libro di Turani, che si differenzia per la particolare attenzione dedicata alla fabbrica, alle condizioni di lavoro (le descrizioni di Mirafiori sono inusuali e di molto interesse), ai rapporti di classe, emerge anche un altro soggetto, il sindacato. Così la cronistoria Fiat degli ultimi ventanni s'incentra sulla difesa prima, e sulla controffensiva dopo, cui la proprietà e il management sono costretti su due fronti: da un'Iato il sindacato e le sue frange più estreme, che sfioreranno il terrorismo; dall'altra il potere politico e i boiardi di Stato di cui Cefis è l'esponente di punta. * * Scorre davanti al lettore il panorama degli Anni 70: «L'autunno caldo rende ingovernabili le fabbriche, la crisi petto- fra sconvolge tutte le previsioni mercat^, incapi non comandano più, Passenteismo dilaga e trova copertura presso il sindacato, i ritmi vengono ridotti a ogni stagione, ogni" occasione è buona per fermare gli impianti, gli straordinari non sono mai concessi, l'azienda è ormai ridotta- a profitto zero...». Poi arriverà la stagione .feroce del terrorismo culminata nell'omicidio di Carlo Ghigiieno nel settembre del '79. Ma quando tutto sembra volgere al peggio, vi è un sussulto straordinario di resistenza e ripresa: il licenziamento dei ritenuti colpevoli di violenze (difesi fino all'ultimo, insanamente, dalla Firn), le misure di ristrutturazione e la lotta dei 35 giorni a Mirafiori, la marcia dei quarantamila, che libera dall'incubo dell'isolamento la fabbrica, infine il rilancio produttivo, le nuove vetture, il trionfo tecnologico della Uno.... Sull'altro/ -versante Turani rievoca la confrontation con Cefis: «Nelfenomeno,Cefis, Aghetti vede una infrazióne alle regole del gioco, il nascere di una guerra per bande, il potere politico che punta a farsi direttamente potere economico». Le sorti della Montedison, il ruolo di Mediobanca, il braccio di ferro nella Confindustria segnano i momenti della disfida, puntualmente ricostruiti da Turani, «cefìsologo» d'annata, tornato sul luogo del delitto, come ben sa chi ricorda Razza padrona, scritto, a suo tempo, in collaborazione con Scalfari. Un interrogativo resta aperto a fine lettura: ' perché Agnelli ha così a lungo atteso, fino all'estate dell'80 secondo Turani (ma, a nostro avvisò, già dal licenziamento dei 61 l'anno precedente), per contrattaccare e porre fine a uno stato di còse che aveva fatto della Fiat, come ricorda il fratello Umberto in una celebre intervista, «ilpiù tormentato laboratorio sociale del nostro paese»} La risposta che si può azzardare è che non si è trattato di una ritirata strategica, quasi l'Avvocato, novello Kutusov, avesse deciso di ripiegare,, oltre Mosca, in attesa che l'avversario s'indebolisse con le sue mani. No, non è andata così; la Fiat probabilmente ha sperato per anni —o si è illusa che lo Stato facesse la sua parte e che di fronte al dramma che stava montando la classe politica, la stampa, la magistratura compissero scelte coerenti con la difesa della civiltà industriale. L'altra grande ipotesi su cui gli Agnelli in quegli anni debbono aver contato va individuata nella possibilità di un compromesso riformistico con un sindacato responsabile e un pei amendoliano. L'offerta più significativa in questa direzione fu l'accordo del '75 sulla sesia mobile, ma la risposta venne da un oltranzismo sindacale senza quartiere, da Berlinguer ai cancelli di Mirafiori, con una ininterrotta coazione a ripetere gli stessi errori, fino alla campagna per il referendum. Fu il tramonto delle due grandi illusioni che spinse la Fiat a sfidare da sola la', buferà che poteva distruggerla. Vi è riuscita, ma non stava già scritto ncila storia che'finisse bene. Mario Pirani

Luoghi citati: Mosca, Ottone