Una principessa staffetta dei partigiani

Anteprima: le memorie di Giuliana Benzoni amica di Salvemini, Amendola, Maria José Anteprima: le memorie di Giuliana Benzoni amica di Salvemini, Amendola, Maria José Una principessa staffetta dei partigiani il romantico Milan Stefani]!. Negli «anni lunghi e ottusi» del regime mussoliniano, casa Benzoni fu un rifugio sicuro e privilegiato per gli antifascisti e Giuliana, diventata amica personale delia principessa Maria José, fece da staffetta tra i «ribelli» e II Quirinale, tra i partiti del Cln e il Vaticano. Le sue memorie, scritte con brio e senza retorica, si fermano alla nascita della Repubblica. Ma anche dopo Giuliana Benzoni — morta nel 1982 — prosegui il suo impegno, con Ferruccio Farri ed Ernesto Rossi, poi con gli «Amici del Mondo». Da «Una vita ribelle», per concessione del Mulino, anticipiamo alcuni stralci: i primi incontri della protagonista con Maria José, Giovanni Battista Montini, Giorgio Amendola. 1. g. IL suo nome non é famoso, ma Giuliana Benzoni per tutta la vita fu in mezzo alla celebrità, amica discreta e collaboratrice solerte di uomini che hanno segnato la storia d'Italia, dalla Belle Epoque alla Resistenza. Nelle sue memorie, raccolte dalla giornalista Viva Tedesco, a giorni in libreria con il titolo «Una vita ribelle» (Il Mulino, pp.254 L. 25.000), si incontrano, tra I tanti, Gaetano Salvemini e Benedetto Croce, Giovanni Amendola, il figlio Giorgio e Raffaele Mattioli, Giustino Fortunato e Saverio Nitti. Nata a Milano nel 1895 da un'antica famiglia aristocratica (nel suo albero genealogico, tra statisti e con-, dottieri, compare anche la madre dell'Innominato manzoniano) Giuliana Benzoni fu una liberale per educazione e scelta di vita. La nonna, femminista con tessera socialista, era amica di Costa e Sibilla Aleramo; il nonno, Ferdinando Martini, toscano mordace, letterato elegante, più volte ministro, fu il suo primo maestro di diplomazia. Al palcoscenico della storia Giuliana Benzoni preferì sempre la buca del suggeritore: carattere entusiasta, avida di scoprire persone e sensazioni, fu un'abile tessitrice di amicizie e alleanze. Prima della guerra fece da cerniera tra le due ali dell'interventismo, i conservatori come il nonno e i socialisti di Bissolati; poi tenne i rapporti tra la diplomazia italiana e gii esuli cecoslovacchi che lottavano per l'indipendenza della loro terra: fra loro incontrò il suo primo e unico amore, ERA una specie di battaglia di carta, quella di noi antifascisti. Costruivamo un castello fantomatico con fragile pazienza e grande idealismo e, in tutto questo, gli echi dell'esterno, della guerra di Spagna prima, delle leggi razziali poi, ebbero l'effetto di un tuono che tutto scompigliava. Ancora più esplosivo fu l'effetto della guerra. Lo vissi dalle parole di Maria José, che, non dimentica delle mie dichiarazioni di repubblicanesimo, era venuta a cercarmi dopo un colloquio con il duce. Era affannata e sconvolta per il destino della sua patria, mi raccontò che Mussolini l'aveva rassicurata sulla sorte dell'amato Belgio. Il vantato intuito militare del duce gli aveva dettato una grottesca prefigurazione della guerra futura: «Fra poco ci sarà una guerra per aria e per mare: una grande battaglia e poi la Germania entrerà in trattative. La Russia non è pericolosa perché hanno ucciso tutti i suoi migliori ufficiali nella guerra contro la Finlandia». Il duce si era detto sicuro che Hitler «non avrebbe attaccato né il Belgio né l'Olanda, né la Romania né i Balcani, ma che, dopo una prova di forza, sarebbe entrato in trattative con la Francia e con l'Inghilterra». «E' ottuso e grossolano» commentò Maria José, sostenendo di non poter accettare l'idea di lutti e distruzioni. Era triste, cercai di rincuorarla: «Ma chi l'ha detto, capa 'e provola? Allora siamo a posto». Maria José, a quella frase dialettale, si rallegrò tutta. Si divertiva a parlare in dialetto napoletano, l'aveva imparato benissimo e aveva un successone quando lo usava a contatto con la gente umile, le era rimasto anche come tic privato, e, da allora, prendemmo l'abitudine di chiamare capa 'e provola, o più raffinatamente provolone, il duce, con il quale si era addirittura favoleggiato di un suo presunto flirt. In realtà Maria José coltivava quei rapporti personali per capire qualcosa e Mussolini era con lei particolarmente onesto. Dopo quella volta, l'instancabile Maria José si recò, ancora, a cercare lumi presso il duce, di nuovo questi la disgustò «per il suo buonumore in mezzo a tanta sciagura umana». DIVENNI di casa in Vaticano. Montini .mi aveva fatto avere due tessere d'ingresso, una per il portone di bronzo, l'altra per la porta angelica: erano le mie chiavi del Vaticano. La prassi degli incontri e dei colloqui era sempre la stessa, venivo introdotta da Montini da monsignor Dell'Acqua che usava un'identica formula: «Sua eccellenza l'aspetta». Però, Dell'Acqua non approvava tutto quel mio commercio con Montini e un giorno me lo fece chiaramente capire dicendo: «Entrare nel segreto del Vaticano è compito da religiosi, non da laici». Intanto, io insistevo presso Maria José perché si prendessero contatti con gli Alleati. Avevo pensato alla Svizzera e a un funzionario degli Esteri, Bernardo Mosca, per sondare le intenzioni di Alien Dulles, il potente uomo dei servizi segreti americani. Montini dissenti su questo punto fin dall'inizio, e chiarì che il ricorso al Vaticano comportava l'accettazione dei canali e delle persone che il Vaticano stesso avrebbe ritenuto più opportune. Il primo incontro di Maria José con Montini — primo di una serie — ebbe andamento da film poliziesco. Montini Maria José di Savoia velocemente saltò giù dalla sua macchina e sali su quella del fidatissimo tenente e medico di Maria José, Ferdinando Arena, che, dopo lunghi giri per far perdere le tracce, lo portò in casa della Grenier. Qui Maria José lo attendeva impaziente, ma fiduciosa. Fu molto edificata dal colloquio, ebbe informazioni di politica estera assai importanti: l'Inghilterra era, in definitiva, ben disposta verso un'Italia monarchica e antiteutonica. La notizia era arrivata attraverso l'ambasciatore inglese a Madrid, sir Samuel Hoarc, questi aveva garantito che la monarchicissima Inghilterra e l'altrettanto filoregale Churchill vedevano con occhio favorevole il mantenimento della monarchia. GIORGIO Amendola era il comunista che, per antica abitudine, vedevo con più continuità. Quando arrivava, con la sua inconfondibile stazza e un'andatura da pattinatore ai nostri appuntamenti volanti, che si alternavano a quelli all'Associazione per il Mezzogiorno dei primi mesi, pensavo sempre: «Mamma mia, ora ci acchiappano». Era tremendamente riconoscibile e assolutamente indifferente al fatto di esserlo, tutto preso dal suo compito di vero rivoluzionario, che doveva dimostrare fino in fondo. Un giorno, per distrazione, arrivò a chiedere l'ora, mentre eravamo insieme in corso Rinascimento, ad un milite della Pai. Questi non era di quelli del bottone, come chiamavamo noi quelli sicuri e doppiogiochisti, fini che voleva portarci dentro, cominciò a chiedergli i documenti.. Ci salvammo solo perché finsi di' avere le doglie e fermai un milite in un'automobile di passaggio, dicendo: «Mi nasce per strada!». Da quella volta Giorgio cominciò a portare occhiali da sole e uno sciarpone che gli copriva metà del volto, anche a primavera. Cercai di indurlo più volte a fare a meno di quelle mascherate che egli supponeva travestimenti perfetti, a prova di nazista. Era candido e fiducioso, come da bambino, e incredibilmente umano. Giuliana Benzoni