Nel bunker devastato di Arafat di Igor Man

Nel bunker devastato di Arafat «Non lasceremo Tunisi, stiamo ricostruendo il nostro villaggio che ospita uomini politici, profughi e famiglie» Nel bunker devastato di Arafat Hamman al Chath è tutto un quartiere: «Fra tre mesi sarà ricostruito» - «Il sequestro dell'Achille Lauro serviva per screditarci» - Ma allora Abbas ha fatto il doppio gioco? «Lo scopriremo. Il guaio è che il Vecchio (Arafat) è troppo buono e accorda la fiducia anche a chi non la merita» - «Re Hussein, da solo, non potrà mai trattare per tutti noi; il riconoscimento dello Stato ebraico potrà essere la conclusione di un negoziato, non il preambolo» DAL NOSTRO INVIATO TUNISI — «Non lasceremo Tunisi», giurano i palestinesi. «Nessuno ci ha chiesto di andarcene, anzi il primo ministro Mzali, proprio a Roma, ha detto: 'Ci siano bombardamenti o minacce, continueremo a svolgere il nostro dovere di ospitalità nei confronti dell'Olp'». Son dunque senza fondamento le notizie che vogliono il trasferimento del quarticr generale a Baghdad o a Sanaa ovvero in Algeria? «Queste notizie sono il frutto dell'intossicazione dell'infaticabile propaganda sionista». «Non solo non ce ne andremo, ma siamo già al lavoro per ricostruire quello che non t, attenzione!, il quartier militare dell'Olp, homi una sorta di villaggio che ospita uomini politici, profughi e famiglie; 250 persone in tutto». Ma un «villaggio» dov'è o era l'alloggio di Arafat non è un posto qualsiasi. «Beh, diciamo che Tunisi ospita la direzione politica dell'Olp. In quanto al Vecchio (in arabo Al Khitiarj è sempre in movimento. Oggi a Baghdad, domani altrove, dopodomani forse a Tunisi o chissà in quale altro posto». Chiedo di poter andare ad Hamman al Chath per vedere i lavori di ricostruzione. Dopo un breve conciliabolo e due telefonate, eccomi a bordo di una utilitaria francese, guidata da A., uno dei giovani di Arafat, in rotta verso Hamman al Chath. La strada ricalca la descrizione che ne fece due anni fa John Le Carré quando raccoglieva il materiale per quel libro, non certo esaltante, che è l/i Tamburina. 11 nastro d'asfalto, fitto di traffico piuttosto lento per via del limite di velocità controllato dai radar, scorre precariamente lungo 35 chilometri. A un certo punto si fa una mezza conversione a U, si valica un passaggio a livello incustodito e, dopo cento metri, si viene fermati dalla polizia tunisina. Il palestinese mostra un tesserino e rimette in moto. Altri cento metri e questa volta è un piantone dell'Olp a fermarci chiedendo la parola d'ordine che il mio accompagnatore sussurra discreto. C'è uno slargo sulla destra che pieno com'è di carcasse d'automobili fa pensare al recinto d'uno sfasciacarrozze. Vi hanno radunato i resti degli automezzi fracassati dai caccia bombardieri israeliani. Due buldozer arancione rimuovono macerie grige, ma più avanti una squadra di carpentieri sta rimettendo gli infissi in una villetta. Dappertutto è cosi: un cantiere fervoroso spazzato dal vento che viene dal mare illividito dalla pioggia recente. «Fra tre mesi sarà tutto ricostruito», dice A. che ora mi affida a b; Costui ha cercato, dopo il raid, di ricostruire — racconta — i corpi dei palestinesi uccisi «pescando in un mucchio allucinante di resti umani». «Su 50 cadaveri non ce n'erano nemmeno dieci interi. Per Amman sono partite casse vuote con la scritta Martire X. E abbiamo dovuto sistemare nel cimitero di qui cadaveri che non potevamo spedire ai familiari in Siria perché Damasco rifiuta l'ingresso anche ai palestinesi morti». A questo punto B. magro, minuto, 23 anni, cresciuto a Beirut nel campo di Sabra, esplode: «la faccenda dell'Achille lmiro per me ha tutte le caratteristiche d'una operazione firmata Ahmed Jibril, uomo di mano di Damasco. E' chiaro che si voleva screditare Arafat per far fare alla Siria la figura di chi risolfc tutto, come già avvenne con il jumbo della Twa. Ma, verosimilmente dopo la richiesta d'aiuto dell'Italia ad Assad, i siriani han mollato quei disgraziati che hanno atteso invano il contatto. Pare che da Tartous dovevano partire in bat¬ tello altri 12 uomini per imbarcarsi sulla lauro». Ma allora Abu Abbas ha fatto il doppio gioco? «Questo non lo so ma lo scopriremo presto. Il guaio e che il 'vecchio' è troppo buono, accorda la fiducia anche a chi non la merita; t già successo altre volte». Ma qui B. s'interrompe perché è di ritorno il mio accompagnatore. Mettendosi un dito sulle labbra sottili: «Io non le ho detto nulla», sibila. «Come dite in Italia: qui lo dico e qui lo nego». Ora andiamo a piedi in giro per il campo. A. era in ufficio quando piovvero le bombe, fu scaraventato in giardino attraverso una finestra aperta dallo spostamento d'aria. Mi mostra il villino sbrecciato che ospitava l'ufficio stampa di Arafat, attaccato quasi alla casa di Abu Animar. Non ne è rimasta pietra su pietra. Gli israeliani hanno colpito con straordinaria precisione ma «il vecchio» era sulla spiaggia a fare jogging... «A la baraka» sorride A. Non tutto il campo è in rovina, diverse sono le dimore rimaste in piedi e s'incontrano bambini, i piedi nudi arabescati dalla polvere, che giuocano con gattini panciuti e vecchi, vecchissimi stupefatti di vivere ancora. Squadre di operai col casco giallo lavorano sui pali a ripristinare le linee telefoniche internazionali c c'è un ufficio, la segreteria politica dell'Olp, che ha già ripreso a funzionare in un villino rimasto pressoché intatto. Un gruppo di funzionari consuma al pian terreno, sopra una tovaglia stesa sulla moquette, un rapido pasto frugale: yogurt, polpette di pollo, quadratini di cocomero; il tutto innaffiato con l'acqua di una giara che passa di mano in mano. Al primo piano vengo introdotto nell'ufficio di S. Il suo viso magro appare stravolto, dietro gli occhiali spessi gli occhi sono pesti. Zoppicando va a sedersi dietro la scrivania, pulita, con le carte tutte in ordine, invitandomi a prender posto di fronte a lui. Anche S. pretende l'anonimato eppure è uno che conta. Vogliamo fare il punto della situazione? E' vero che sono stati convocati a Tunisi il Comitato esecutivo, il Comitato centrale di Al Fatah e l'ufficio permanente del Cnp (il Parlamento in esilio) per prendere decisioni di somma importanza, in modo da porre riparo alla frana che vi minaccia? «Non credo che quegli organi si riuniranno a Tunisi. Nessuna frana ci minaccia. Si tratta indubbiamente di fare un'analisi severa della situazione». Arafat ha detto che «ciò che è accaduto negli ultimi 13 giorni è stato un disastro». Londra vi ha sbattuto la porta in faccia, l'Onu non vi vuole più alle celebrazioni del quarantennale, la Cee ha rinviato un incontro importante. Pressioni vengono esercitate su re Hus¬ sein perché negozi da solo con Israele e Tel Aviv potrebbe riannodare i rapporti diplomatici con Mosca... «Hussein non potrà mai trattare da solo. Mai. I palestinesi rimangono la chiave d'ogni soluzione politica. Israele e TUrss sono due Stati sovrani, possono benissimo riallacciate le relazioni diplomatiche. Sarà un bene perché Mosca avrà la possibilità di pesare di più in Medio Oriente, spingendo in direzione di quella Conferenze di pace internazionale che potrebbe, infine, risolvere la tragedia». Forse se aveste avuto il coraggio politico, come insisteva il povero Sartawi, di riconoscere Israele avreste messo in difficoltà i falchi di Tel Aviv e cancellato ogni riserva americana e oggi si marcerebbe verso la pace... «Noi non accettiamo diktat. Il riconoscimento pud essere la conclusione di un negoziato non il suo preambolo. Un movimento di liberazione nazionale non pud riconoscere al buio chi occupa la sua terra, chi calpesta le risoluzioni dell'Orni». E allora? «Continueremo a lavorare per la pace ma senza abbassare la guardia. Il discorso di Arafat all'Orni, il 23 novembre del 1974, ha tracciato una volta per tutte la nostra li¬ nea politica: in una mano il mitra, nell'altra il ramoscello d'ulivo. 'Sta a voi scegliere la mano', disse». Allora i grandi settimanali americani titolarono in copertina: «Arafat Day». Oggi la stella di Arafat sembra piuttosto appannata. «Niente affatto. Abu Animar è amareggiato e forse un po' stanco ma per le masse arabe rimane sempre l'eroe nazionale, l'uomo non ha ottenuto successi tangibili sul terreno, questo é vero, tuttavia ha dato coscienza nazionale, dignità a un popolo intero. 1 palestinesi si identificano ncll'Olp che è più di un Fronte nazionale: è uno Stato senza terra». Lei vuol dire che l'Olp è Arafat?... «No, Arafat è il simbolo del popolo combattente, che non s'arrende mai. Ixi nostra organizzazione era un corpo senza testa. Con l'avvento di Arafat, nel 1969 alla presidenza dell'Olp, quel corpo ebbe finalmente la testa». Ma l'Olp ha perduto il Fronte democratico di Hawatmch, il Fronte di Jibril, il Fronte popolare di Habbash... tutti passati al servizio della Siria. «Non contano nulla. Ilawatmeh è un teorico mediocre, Jibril un agente dei servizi segreti siriani, organizzatore di azioni pseudoguerrigliere lese sempre e soltanto a screditare Arafat. Habbash non d un meaucre ma è un vecchio dogmatico che può convincere al massimo cinquecento persone, nel chiuso di un auditorio, non le masse palestinesi. Certo la congiuntura è avversa, ma passerà la tempesta, riavremo un lembo di patria. Come disse un giorno Arafat, la nostra e la guerra dei cinquantanni». Fuori è già il crepuscolo. Pa freddo. Lungo la battigia percossa da un mare furioso, passeggiano, stretti in uno di quei complicati abbracci di cui solo i giovani sono capaci, un ragazzo e una ragazza. Il vento scompiglia i lunghi capelli neri di lei c gonfia l'azzurra camicia di lui. Camminano immemori, voltando le spalle alle macerie di Hamman al Chath. Igor Man . ■ Tunisi. Yasser Arafat ispeziona, cjrcondato dalle guardie del corpo, le rovine della sede dell'Olp dopo il bombardamento israeliano