Salotto

Salotto Salotto Zoppi ha una bella faccia aretina, con denti da coniglio, occhiali spessi e la barba grigia e lunga della notte. Deve sentirsi forte di antenati toscani, ora fa il professore all'università e la sera viene in libreria a fare il commesso, per aggiustare lo stipendio. Un altro comiìiesso si chiama Arastegui, ha la faccia sema peli da bambino, un giubbotto militare e di giorno fa lo storico; ha vissuto cinque anni a Barcellona, non dice quando ma si capisce. , La libreria diventa un teatrino salottiero, dove incrociano i loro percorsi le figure inquiete e ammalianti d'una città che ama la notte come il tempo della liberazione. J discorsi s'incastrano a bran* delti, ogni nuovo arrivato aggiunge un pezzo di colore e 'poi scompare allontanandosi dalla comune, senza un applauso, sema un ruolo certo. Dai denti di coniglio di Zoppi vengono fuori parole e saliva; cita nomi e ricordi, rintraccia e legge frasi esilaranti di Borges: lentamente, l'itinerario d'una storia culturale si assomma dalle pagine sfogliate con memoria sorprendente e dal tiro delle citazioni che le comparse d'una sola battuta lasciano cadere tra i banchi accatastati di libri Genèt o Julian Beck più che Brecht, lo happening che si recita di fronte allo straniero ha il tono divertito dell'assurdo e la valvola del teatro-verità. A mezzanotte, commediante e spettatore d'una recita senza copione, lo straniero lascia il portoncino per tutte le ore che ancora restano della lunga natie. Prima al Café de la Paz, rifugio un tempo di tutti gli oppositori della dittatura, un locale di tavolini di legno vecchio dove si tira mattino con la birra e l'acqua minerale, e poi al tango, dietro le orme soffici di Carlos Gardel in un impossibile ritorno al passa'to del miti felici «Buenos' ;Aires mi querldo», dice ancora oggi la canzone. ' i // percorso di una notte portefla poteva anche esser cominciato dalle vecchie sale ^neoclassiche del Museo de Arte Decorativo, dove alcune centinaia di oggetti raccolti .da collezionisti privati rldisegnano nelle ultime settimane di settembre il gusto di un'epoca che fece la grande drammatica Illusione di questa città. Gli oli di Tamara de Lempichka, le pitture di Icari, i mobili di Dunand e Ruhlmann, i vetri di Lalique, le sculture di Rembrandt Bugatti, i modelli di Doucet, ripropongono nelle linee, nei colori, nell'eleganza stilizzata delle forme, la stessa cultura e lo stesso ambizioso gioco di ricalco che segnò per un ventennio l'architettura più nobile di Buenos Aires. Oggi ancora, soprattutto nelle lente passeggiate notturne di questa stagione, gl'itinerari cittadini del Barrlo Norte sono una sorta d'avventura archeologica che riscopre, sotto gli sfregi del tempo, le tracce orgogliose degli Anni Venti e Trenta. Non c'è città che, quanto Buenos Aires, sia l'immagine vivente della propria storia, la somma affastellata e capricciosa di stili, culture, desideri, die avevano tutti legittimità d'espressione e bisogno di convivema. Ogni angolo qui racconta una sua leggenda dell'emigrazione dall'Europa e ogni emigrante che lo poteva qui ha fatto venir su palazzi e disegni che ricordavano il suo ricordo d'una città, vera o immaginata, lasciata comunque dall'altra parte dell'Oceano: il Tudor si alza porta a porta con il Luigi XVI, le volute eleganti del Liberty s'addossano a facciate lisce e semplict da antica provincia italiana. Ci sono edifici che sono assieme Parigi e Ragusa, Londra e Malaga; ma è soprattutto nell'Art Déco die Buenos Aires esprime la sua conquista finalmente di un'identità, esaltando nella riscoperta tardiva di un gusto tipicamente europeo la voglia del passato perduto e il desiderio folle di ricostruirlo quaggiù, a diecimila chilometri dalla rotta del non-ritorno. E all'una e mezzo,'1 nella notte ancora tenera, si fa il tempo del tango. Buenos Aires lo sta riscoprendo con misura, con una parsimonia dove la diffidenza e il sospetto hanno gran parte. Il successo che arriva da Venezia lascia incerti, il Gardel di Solanas è ancora un film: poco più d'un gioco intellettuale. Mentre qui il tango è stato storia collettiva, il racconto d'una falsificazione genuina sulla quale modellare la curva dei sentimenti e il vuoto dell'identità. Il tango, i generali della dittatura, non è che lo avessero proibito, solo che non gli piaceva molto: canta tristezze e sconfitte, brevi romanzi grigi di lacrime, e poi è volgare, coscia dentro coscia. I militari sono puritani ovunque, quelli argentini dicevano anche di lavorare nel nome de Diós. Gardel che indossa il peccato e lo smoking era una trasgressione insopportabile, e cosi quando le Malvlne si misero male il vignettista del Clarfn lo tirò fuori dal suo lontano esilio per fargli raccontare ogni giorno il nuovo refrain della democrazia. Ora che i generali se ne sono andati, chiusi in salamoia a rischiare un ergastolo che non soddisfa nessuno, il tango è tornato a Buenos Aires. Le case della musica hanno ritrovato pubblico e se ne sono aperte di nuove, sono riapparsi in tv i film di Gardel, una radio non trasmette altre storie, giorno e