Tutti gli incanti dell'Oriente nel Re Cervo visto da Serban

Tutti gli incanti dell'Oriente nel Re Cervo visto da Serban Alla Biennale Teatro uno splendido allestimento della favola di Gozzi Tutti gli incanti dell'Oriente nel Re Cervo visto da Serban DAL NOSTRO INVIATO VENEZIA — Andrei Serban, il regista romeno-americano alla guida dell'Amerlcan Repertory Theatre, ci ha offerto sabato sera al teatro Mallbran con il suo Re Cervo la più tenera, serena, gioiosa fiaba teatrale da Gozzi vista .negli ultimi tempi: e dire che, dopo essere stato per uh secolo e mezzo ingiustamente trascurato, buono soltanto a indispettire alcuni nostri musicologi per i pasticci che hanno combinato, grazie a lui, certi operisti, il conte veneziano ha di nuovo conosciuto gli allori del palcoscenico di prosa: e, di recente, non sono mancate le messinscena di cui render conto al lettore. Ma Serban ha avuto, proprio nell'avvio della sua rilettura, un'intuizione semplice e geniale: quella di prendere alla lettera l'Oriente che fa da sfondo alla solita, strampalata vicenda del re di Serendippo, Damerlo, che dopo avere smascherato 2748 candidate alle nozze sfacciatamente menzognere grazie ad una statua-detective che ride ad ogni bugia, trova infine nella bella Angela la sposa schietta e pura: ma ne è allontanato dal ministro traditore Tartaglia, è da lui con la frode tramutato in cervo, di qui in vecchio miserando, e solo grazie al mago-pappagallo Durandarte recupera la sua pristina natura, il regno, la sposa. Screndippo, cioè un inesistente, leggendario medio Oriente, diventa per Serban l'Oriente estremo,' tra Cina, Giappone, e quell'arcipelago indonesiano che racchiude in sé lo scrigno millenario della musica e della danza, l'isola di Bali. Proprio alle danze ballnesl, misteriose e gentili,, bellicose e terrificanti, e, in; particolare, al costumi e'alle; maschere animalesche che 1' danzatori vi devono indossare, si è palesemente ispirata quel «mostro» di costumista, che dev'essere, a giudicare dall'eccellenza del risultato, Julie Taymour: una tavolozza di tinte screziate sulla gamma dei colori-base di laggiù, una vera profluvio di acquamarina, aranciato, carnicino, ceciato, citrino, glauco, Ìndaco, lionato, malva, opalino, soriano, e vi garantisco che non sono riuscito a schedarli tutti. Se le sfumature son tante, la varietà nella linea dei costumi non è men ricca: il mago Durandarte indossa (stavo per scrivere: è) una svasata gonnella-pantalone in bianco e nero, a balze e sbuffi degradanti, mentre dalle spalle gli partono due lunghissime maniche bianche leggere, che si sperdono vaporose come ali nell'aria; il malefico Tartaglia (che, per inciso, non balbetta, ma tradisce una vistosa esse blesa) è tutto racchiuso in un gonfio mantellone nero, ma lo spa lanca a tratti e svela giallastri révers da membrane di pipistrello. Mi fermo qui,' tanto mi sento incapace a restituire con le parole la ricchezza delle suggestioni visive; dirò per scrupolo che solo i servi e le soubrettes hanno, nel loro costume, qualche cauto accenno alla Commedia dell'Arte italiana, come Smeraldina, che ha una gonnella-guardinfante ciré tutta un ricamo di concertate «pezzette», come avrebbero detto all'epoca i nostri zanni. Aggiungerò, invece, che tutti o indossano maschere, come i già citati Durandarte, Tartaglia e come il re Damerlo, che ha proprio la maschera delle divinità di Bali; oppure hanno sul viso dei posticci, e spesso son nasi da clown su labbra e ciglia pesantemente truccate. Clownesca è anche la recitazione degli attori, ma di un clownismo alleggerito sul versante della grazia, illimpidito e, diclam pure, denatu¬ rato. Da questo punto di vista si può tacciare la prima mezz'ora dello spettacolo, che ha il pregio di durare in tutto non più di ottanta minuti filati, di un certo formalismo o di una alta e fredda maniera. Ma c'è poi un'altra cinquantina di minuti in cui Serban non solo dispiega la varietà dei suoi mezzi registici e mostra la ricchezza dèi suoi registri espressivi, ma ci fa per¬ cepire il sottofondo amaro di quella favola sghemba, e, in apparenza, senza significato. E' la gran sequenza della caccia nella Selva dei Miracoli. Serban intanto vi dispiega una ridda di immagini, proiettate, alla maniera del teatro d'ombre di Bali, su un diafano schermo: uccelli che volano lenti, belve che balzano massicce all'attacco, frecce che volano oblique nel cielo. Poi, guidati e animati a vista da marionettisti in tute e mascherina bianche, vengono in proscenio o scendono in platea grandi animali di tela ed aria: l'immenso orso feroce, che passa sulle teste degli spettatori, i due cervi di pergamena, azzurra lui e rosa lei, in trepidante seduzione amorosa. E soprattutto si fa largo, ironica e pietosissima immagine, il vecchio nudo e macilento che è ora il principe: nient'altro che un'ossea marionetta, con un gran cranio e una gran bocca sdentata, manovrata con dolcezza dai suoi operatori. E' da questa grama parvenza umana, che denuncia tutta la falsità del proprio eloquente trovarobato, che Serban spreme l'esile morale della favola: storia d'inganni e metamorfosi, di magiche sopravvivenze, in cui non è certo il corpo dell'uomo a resistere (che anzi ce ne vengono mostrate le illusorie fattezze), ma la sua vagante e tenera animuccia, un filo, non più che un filo nell'intrico della turbinosa esistenza. Guido Davico Bonino Una scena di «Re Ceno», spettacolo incantevole per i colori, i costumi e l'amarezza di fondo

Luoghi citati: Cina, Giappone, Venezia